sabato 21 dicembre 2013
INDOVINA CHI VINCE A NATALE?
INDOVINA CHI VINCE A NATALE? |
Fausto
Brizzi convince a chi crede in Babbo Natale, festeggiando insieme alla Disney
di Lasseter con il suo FROZEN
Diego Abatantuono si incorona Re del
Natale, per una comicità che premia il cinema natalizio dei buoni sentimenti,
tutto sotto lo scettro della Pixar con il fiabesco adattamento della storia di
Christian Andersen.
Ebbene il
colpaccio si è ripetuto per la seconda stagione consecutiva... segno che il “popolo”
italiano delle Vacanze sa ancora apprezzare il buongusto della tradizione più
attaccata al periodo dell’anno in cui tutto deve essere incorniciato in nastri
rossi e vischi a più non posso, facendo stressanti file per assicurarsi che l’ultimo
pacchetto natalizio sia stato confenzionato a dovere. Lo stesso ragionamento
lo ha sicuramente fatto il nostro Fausto Brizzi, già abituato a quel
cinepanettone che ormai sà più di parolaccia rivestita a dovere, per tornare ad
essere definitivamente quel delizioso momento di 90 minuti in cui tutto scorre
sotto il monito della commedia italiana che non guarda in faccia a nessun
periodo dell’anno, senza ipocrisie e diritto allo stomaco. E Christian De Sica
ha salutato tutti con l’ultimo “disaster Movie” passando il testimone a Paolo e
Luca, per accontentare chi vuole giustamente credere alla risata di poche
pretese. La gavetta di Brizzi, diplomato al centro sperimentale (sembrava) solo
per assoldare ai doveri di un Neri Parenti che gli faceva scrivere tutti i più
recenti dozzinali Natali in ogni dove e con tette e culi al macello, si è
infine dimostrato quell’autore di talento in cui tutti hanno sempre creduto,
dalla fiction televisiva per arrivare a toccare quel “mostro” sacro di Francesco
Mandelli, rubato ai I Soliti Idioti
per dirigerlo nel più misurato Pazze di
me. Quest’anno ripesca un collaudato Diego Abatantuono, ormai “purosangue”
senza esitazioni di stile, per incorniciare la fidanzatina italiana Cristiana
Capotondi insieme al “bellone” più cool del nostro cinema, uscito dai ranghi di
Moccia e prestando il suo nome (Bova... Raoul Bova) a questo film che si
preannuncia già come un elisir di buoni sentimenti dai sapori di Oscar più “devastanti”
(non possiamo non nominare Il mio piede
sinistro), per un belloccio che fà intenerire i cuori femminili tra un
sorriso e un’amarezza, per essere un monito a quell’handicap che c’è ma non si
vede, un pò come il nostro Governo che sembra di voler giocare con le sorti di
noi contribuenti. Intanto il cinema è un nostro sacrosanto diritto, e la Disnsey-Pixar
ha fatto le cose in grande anche per il rifacimento della storia classica di
Andersen ispirata a “La Regina delle Nevi”,
con un Brignano nostrano che riesce a caratterizzare il suo Olaf con quel tocco
di originalità che sà di furbizia di mestiere per chi di doppiaggio se ne
intende un pò di più, e l’Autieri come spalla se la cava benissimo. I giochi
sono fatti, e le corse ai multisala sono l’ansia che ci tocca subire per non
farci scappare l’ultima uscita della stagione... sempre nel buon nome del cinema.
Quello buono, come sempre. BUON CINENATALE A TUTTI!
Paolo Vannucci
mercoledì 4 dicembre 2013
CINENATALE 2013: cuciniamoli a fuoco lento!
La strenna
natalizia sulla griglia del botteghino, con un cinema italiano che stenta a
scendere ai patti con i Kolossal americani di fine stagione
Mentre Checco Zalone beffa De Sica e Pieraccioni, anticipando il cinepanettone a
novembre, i giochi di Hunger Games accompagnano la scalata dell’Hobbit di Peter
Jackson.
DiCINEMA: CINENATALE 2013 |
Paolo Vannucci
domenica 3 novembre 2013
DiCinema: la nuova Hollywood
Bill Murray (DiCinema: la nuova Hollywood) |
Ilarità e commedia disimpegnata, per
uno dei volti più popolari della comicità americana, nel talento di Bill Murray.
Quando
essere comici può bastare a valorizzare un estro di artista che vale
esclusivamente nell’essere “fieramente” capace di far ridere: Bill Murray.
Claudicante star in ascesa del solito, celebrato SNL, subentrato nella
programmazione televisiva grazie all’uscita di Chevy Chase, quel giovane comico
dell’ Illinois, nove fratelli e genitori di modeste origini irlandesi, abdica
inzialmente gli studi di medicina per intraprendere quella carriera di attore
che lo ha visto debuttare in teatro per passare da quell’amicizia con lo stesso
artefice di quel successo chiamato Ghostbusters
(vero alfiere del programma statunitense), in quel di Dan Aykroyd. Diretti
da Ivan Reitman, comprimario lo stesso Harold Ramis che lo ha voluto dirigere
nel riuscito Ricomincio da capo, felice
commedia nei paradigmi temporali affidati alla comicità estrema, con Andie
MacDowell ad addolcire le ansie di uno scapestrato giornalista in fuga dal
tempo. Un’affermazione cinematografica avvenuta nel pilot di Stripes – Un plotone di svitati, per
approdare nel cast stellare di Tootsie,
spalla di un Dustin Hoffman ricordato per sempre nelle transgeniche fattezze di
una “insolita” primadonna da soapopera. Il tocco di Frank Oz non affievolisce
la valenza di Murray (Tutte le manie di
Bob), accostandolo ad un Richard Dreyfuss che arride alla stessa valenza di
Robert De Niro nel successivo Lo Sbirro,
il Boss e la Bionda, insolito cocktail prodotto da Martin Scorsese, con un
triangolo avvalorato dalla stessa Uma Thurman, in prossimità degli esordi. Un
ritmo di testata comicità, sospesa a metà degli anni ottanta per affinare le
capacità recitative, plasmate nell’analogo S.O.S
Fantasmi (Scrooged), rivisitazione del classico dickensiano affidato
all’esperto Richard Donner, sublime monolgo raffinato di Murray, che stupisce
tanto quanto la celebrazione di Shakespeare nell’insipido Hamlet 2000 (colpa di Baz Luhrman?), incolore opera moderna di
Michael Almereyda, quasi a sfatare lo stesso mito nell’analoga operazione pop
voluta per il restyling cinematografico di un’icona televisiva statunitense,
nel trio formato da Cameron Diaz, Drew Barrymoore e Lucy Liu, nel Charlie’s Angels diretto a due riprese
(suo anche il sequel) da McG. Una verve comica che ha smaltato la scorza di una
più matura valenza di attore “invecchiato” a dovere... ma che continua
inesorabilmente nella sua elegante performance di abile giocatore (il golf, la
sua passione, a cui ha dedicato un libro, Cinderella
Story: My Life in Golf), in quel campo che ne ha decretato “buche e
ostacoli”, ma sempre vincitore.
Paolo Vannucci
sabato 12 ottobre 2013
martedì 8 ottobre 2013
DiCinema: La nuova Hollywood
DiCinema: Steve Martin (2013) |
Comicità, vèrve e raffinatezza, per
uno degli attori e autori di un cinema che ha mantenuto le aspettative della
commedia tipica Hollywoodiana, nel talento ineguagliabile di Steve Martin.
Riuscire ad
arginare un talento che può travolgere e definire i tempi di una rinnovata
recitazione comica, senza marcare il confine tra la classica commedia e il
revival musical oltre ogni stile
generazionale, può sembrare quasi impossibile... oppure, come il nostro Steve
Martin ha saputo superbamente dimostrare, essere una grande realtà. Texano,
come un buon whisky che non può deludere, con salde radici negli studi
ordinari, fino alla laurea in filosofia. Il primo debutto in una compagnia
teatrale formata nel periodo liceale, con un piccolo musical, per definire la
propria carriera professionale solidamente indirizzata nello spettacolo. Passare dalle prime esperienze televisive
(The Smothers Brother Comedy Hour), alla fucina “obbligatoria” del Saturday
Night Live, per approdare al cinema con una solida esperienza come autore.
Tutto è iniziato con Ecco il film dei
Muppet (The Muppet Movie, 1979),
celebrazione dell’universo creato da Jim Henson, negli indimenticabili Kermit
& soci, in un valzer di celebrità “investite” dai personaggi di pezza più
popolari della TV (lo stesso Steve Martin, con il proprio talento, tenuto a
battesimo quando da ragazzino lavorava presso il Magic Shop di Disneyland), per essere diretto da Carl Reiner (sue
le sceneggiature) ne Il Mistero del
cadavere scomparso (incursione atemporale nella commedia anni ‘40), Ho perso la testa per un cervello (brillante
idea di un soggetto che vede Kathleen Turner disputarsi i favori di un
neurochirurgo in cerca d’amore in un cervello femminile parlante) e Ho sposato un fantasma. La celebrazione
del Saturday televisivo si completa con John Landis che dirige un travolgente
trio di avviate conferme in Martin, Chevy Chase e Martin Short nel I Tre Amigos, parodia del cinema muto
nei riflessi comici, a suo tempo contestati da un’eccessiva caratterizzazione
messicana dei personaggi, per completare il genere fanta-comico-splatter con il
più celebrativo La piccola bottega degli
orrori, con Frank Oz a “deliziare” un raccapricciante quasi musical (in
origine basato su una commedia Off Broadway di Howard Ashman), con Rick Moranis
ad affiancare Martin, nel ruolo chiave del dentista sadico. La prima incursione
nella trasposizione “ad Opera” (sua anche la produzione) avviene per mano di
Fred Shepisi a dirigere Roxanne,
divertente commedia tratta dal Cyrano di Edmond Rostand, con Daryl Hannah nel
ruolo di una rivisitata astronoma in dipartite di cuore, seguita dal più
elaborato Pazzi a Beverly Hills (L. A.
Story), shakespeariana trasfigurazione a vantaggio degli status sociali
(Sarah Jessica Parker e Victoria Tennant tra i protagonisti). Ron Howard lo
dirige in Parenti, amici e tanti guai,
riunione di famiglia con un collettivo di tutto rispetto (con Tom Hulce, Keanu Reeves
e Dianne West), per riproporlo
nuovamente ne Il Padre della Sposa
(entrambi i film diretti da Charles Shyer), nel rifacimento di un classico
della commedia anni 50. Di ottimo impatto, il riuscito lavoro di Kasdan, nel Grand Canyon sempre a favore di Kevin
Kline (da citare anche Danny Glover e Mary McDonnell), per sondare il difficile
terreno fertile della religione-spettacolo, con Debra Winger a rafforzare il
soggetto. Si susseguono lavori di doppiaggio, da Il Principe d’Egitto a Fantasia
2000, per risondare l’ennesimo remake di un altisonante capolavoro di Blake
Edwards, La Pantera Rosa, nel ruolo
che fu di Peter Sellers, in due episodi rispettivamente diretti da Shawn Levy e
Harald Zwart. Una carriera di successi che hanno sempre confermato una
ineguagliabile mimica e caratterizzazione, che non hanno mai deviato i tempi
della commedia tipica americana, soprattutto quando il valore della comicità
non è mai un espediente in cerca di prodezze da Oscar.
Paolo Vannucci
mercoledì 11 settembre 2013
"RIPUFFIAMO" CON I PUFFI 2
Computer
grafica “figlia dei tempi” per il secondo episodio sempre diretto da Raja Gossnell.
Chi l’avrebbe mai detto che da una “puffosa”
giornata come tante, nella sobria noia di un disegnatore distratto, potevano
nascere delle creaturine tanto audaci da far diventare quel tormentone “passami quel... puffo” uno dei
colossi della cultura a fumetti per i
più piccoli di tutti i tempi? Se Pierre Culliford (in arte Peyo) non poteva
immaginare le incalcolabili proporzioni di un simile successo, ci ha pensato la
Sony Pictures Animation, in collaborazione con la Columbia, a dare “nuova vita”
a quel progetto realizzato nel 2011 con il primo episodio sempre diretto da
Raja Gossnell, caratterizzando quelle soffici forme bianco-blu dei buffi
nanetti con tanto di cappello, che hanno colorato di sobria fantasia le
giornate televisive dei piccini svezzati a “puffi
a merenda”. Un successo che deve la
fortuna alla voracità della celebre coppia Hanna e Barbera, che nel 1981 ha
battezzato la prima “valanga azzurra” (la nostra Cristina D’Avena ha potuto
intonare quel ritornello, marchio a DOP della cultura vintage televisiva
tricolore) che ha fatto diventare un
prodotto di inestimabile merchandising mondiale (bissando il successo del
talentuoso Tin Tin del connazionale
Hergè) il fumetto originale di Pierre Culliford, disegnato per la prima volta
nel 1958 e trasposto nel primo lungometraggio d’animazione del ‘65 "Les
Aventures des Schtroumpfs", vero prequel dell’invasione statunitense
perpetuata dalla NBC sino al finire degli anni novanta, dopo che lo stesso Peyo
è venuto a mancare nel 1992. Oggi si riparte da DUE, stessa formula, stessi
ingredienti e stessa ilarità sulle spalle dei più smaliziati grandicelli, che
volentieri si abbandonano a quella voglia di eterna gioventù, affidandosi alla
nostalgica moda dei gadget in plastica colorata per deliziarsi nelle prodezze
della nuova era tecnologica della computer grafica in 3D... per toccare
nuovamente quei goliardici personaggi dai buffi nomi, così tanto simili alle
nostre ansie quotidiane. E’ così bello
ritrovare un Mago Gargamella così autentico e fedele all’originale... e forse
meglio, nella perfidia mimica di Hank Azaria, indaffarato a creare dei
mefistofelici cloni degli innocui puffi blu (I Puffi Monelli, affidati alle
voci di Christina Ricci e J. B. Smoove), sempre ammoniti dal saggio Grande
Puffo, divertiti dall’intrepido Tontolone e razionalizzati dal serio
Quattrocchi... e tutti in nome della Puffetta, dolce e sexy più che mai,
rivalutata dalla inedita Colonna Sonora affidata alla Hit di Britney Spears, Ooh La La. Una formula mista battezzata
dal Garfield diretto da Peter Hewitt,
trasponendo l’omonimo fumetto nella simpatia del Gattone Rosso ritoccato dalla computergrafica e Live-Action, capace di creare quel ponte che solo la fantasia può
costruire, per far diventare realtà le nostre innocenti nostalgie che si
trasformano in soporifera umanità. I giochi sono fatti... e a noi piace tanto
giocare, magari con un bel gelato al gusto di Puffo!
Paolo Vannucci
sabato 17 agosto 2013
TURBO: la sfida della DREAMWORKS al colosso PIXAR è nelle sorti di una piccola lumaca!
La stagione estiva si conclude con le ambizioni
firmate David Soren, per sorprendere le aspettative antitradizionaliste di una
DREAMWORKS ANIMATION formato famiglia
Velocità
e buoni sentimenti, per la parabola "sognatrice" che fà tremare la
Disney-Pixar di Lasseter.
E’ proprio vero; "tremate, le corse sono tornate". O le lumache?
esclamerebbe un più combattivo Ron Howard che stà per scendere ai box di una
delle più attese sfide affidate ai bolidi su quattro ruote formato Formula Uno,
con il suo Rush, dedicato al periodo
d'oro siglato dal celebre duello firmato Niki Lauda-James Hunt (rispettivamente
Chris Hemsworth e Daniel Brhul), proprio mentre la computergrafica è diventata
l'additivo doping più supervalutato e abusato da ogni team sportivo... e qui si
parla di major che si contendono le platee cinematografiche di vacanzieri
"affamati" di pixel e originalità. Quando sembrava che Lasseter
avesse innalzato un muro di insuperabile maestria con il suo innovativo Cars, in quel Saetta McQueen oggi
rivisitato dalla stessa Disney (ora in veste di produttore esecutivo) con Dusty
Crophopper, piccolo aereoplano che sfida i cieli in analoghe competizioni da
vera star in Planes, ecco che la
DreamWorks di Spielberg (chi meglio di lui) non resta di certo a guardare,
visto il recente successo riscontrato con Le
Cinque Leggende, immergendo un pubblico abituato alla linea antidisneyana
battezzata con Shrek, per riprendere
quel sapore di tradizione che di certo non guasta. Il risultato? un vero mix di
zuccherosa filosofia in soffici forme colorate dalla simpatia dei personaggi,
ricordandoci di quel nonnino di Up
che tanto ci ha fatto commuovere, tra palloncini colorati che ci fanno vedere
il mondo dall'alto dei cieli (proprio per questo ha vinto un Oscar, nel 2010,
per l'animazione), ma questa volta la morale è riposta nei sogni di una giovane
lumaca che sembra convogliare tutti gli stereotipi delle favole di successo,
confermando una formula che è stata ammorbidita (forse) dalle recenti traversie
sociali "manipolate" dagli adulti, che sposano l'amarezza con la
soporifera redenzione di un lieto fine dal sapore di pop-corn e coca cola. Le
trame sembrano sempre rimandi volenterosi di piacevole abilità artigianale
(ebbene si, ora il cinema d'animazione è solo affidato alle penne ottiche e le
tavole grafiche dei cartoonist) ed i nomi di quei personaggi sono come le
macchiette uscite dalle tavole a fumetti della nostra infanzia. Nulla ci può scoraggiare
a volerci affezionare a Turbo,
geneticamente dopato a misura di sogni, affidato alla voce di Ryan Reynolds
(reduce dal Jordan di Lanterna Verde)
e Paul Giamatti, in quell'ambizione di correre tra l'asfalto di Indianapolis
che marcia al ritmo di un cuore che riesce a farci desiderare di essere sempre
vincitori. Almeno se accompagnati dai nostri figli!
Paolo Vannucci
lunedì 1 luglio 2013
LONE RANGER E' TORNATO!
Corvi e
pistole, per la cavalcata del ranger solitario firmata da Gore Verbinski, con
Johnny Depp “coraggiosamente” Tonto
Dopo Pirati dei Caraibi, la miscela
esplosiva di humour e azione a sugellare il ritorno al cinema del personaggio lanciato
dalla WXYZ radio statunitense.
Con Gore
Verbinski non potevamo che aspettarci un vero cult dissacratorio e ambizioso al
punto giusto, visto che per interpretarlo è ricorso al più collaudato “indio”
che potesse accreditare nei panni di Tonto, vera star al fianco del Ranger
ispirato all’ufficiale federale realmente vissuto al finire dell’ottocento,
Bass Reeves, ripescato dall’autore Fran Striker dell’emittente radiofonica WXYZ
che nel 1933 ne imbastì il primo programma a puntate (tremila circa in totale,
celebrando il ventennale nel primo film girato nel 1956). Nulla di simile al
nostro Johnny Depp contemporaneo, che del personaggio spalla originale sembra
solo conservare la tipica sillabazione fonense, adattando il proprio look di
nativo americano Comanche ispirandosi al dipinto originale di Kirby Sattler. Un
film nato sotto gli ottimi auspici celebrativi, visto la recente firma del
produttore Jerry Bruckheimer nella prestigiosa Walk of Fame, con lo stesso Depp
come padrino della cerimonia, fresco delle sue cinquanta (ebbene sì) primavere.
Una produzione Disney di ampi orizzonti, visto la recente “transizione”
battezzata da Tim Burton con il suo Alice
in Wonderland, poliedrico nel tratteggiare i personaggi nella frenesia
circense colorata di follia. Il risultato che ne consegue è inevitabile,
ritrovandoci quel cocktail di citazioni (tipiche della Disney formato cartoon)
che ha trasformato la prateria della frontiera americana cara al fumetto
originale (proseguito con successo negli albi della Western Publishing, per
approdare alla recente produzione affidata alla Dell Comics) in una moderna
contea di Hazzard dei Dukes formato Pirati dei Caraibi. Armie Hammer
(l’attore) diventa così uno sprovveduto ranger riportato in vita dallo spirito
di un indiano (Depp) che lo istruisce alla propria missione, prendendo in prestito
le atmosfere di un analogo fumetto della DC Comics in formato celluloide nel
nome di Jonah Hex, nella coppia Josh
Brolin e Megan Fox diretti da Jimmy Hayward, che se ne possono trovare ampi
riferimenti di trama e abilità cinematografica, attingendo nelle
trasfigurazioni cromatiche che possono accomunare le tavole di entrambi. Se
l’istrionismo di Depp può bastare a dare corpo alla sceneggiatura scritta da Justin
Haythe, Ted Elliott & Terry Rossio, estremizzando quell’ilarità che ha
potuto colorare un accademico Richard Donner nel suo “proverbiale” I Goonies, pizzicando lo stesso Brolin
allora adolescente, di certo non possiamo essere turbati da una ennesima Helena
Bonham Carter che dalla scacchiera della Regina di Picche si ritrova in un
ennesimo compromesso temporale tra cavalcate (il sauro Silver è rimasto sempre
bianco, per volere di Dio), fughe dal treno e caverne cupe da oscuri segreti. Clayton
Moore può riposare tranquillamente in pace, visto che rimarrà l’unico Lone
Ranger in carne e ossa in sella a quel ronzino che ha sfrecciato sulle note
della celebre March of the Swiss Soldiers
del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, per trovare residui sprazzi di celebrità
televisiva nella serie animata a più riprese, iniziando dalla primissima del
’68 per approdare alla corposa riedizione della Filmation dedicata alle
celebrità d’epoca (vedi Tarzan, Zorro e lo stesso Lone Ranger), finendo nella
celebrativa serie del 2001 che ha dato l’incipt per un pilot televisivo arginato
sul nascere, con Chad Michael Murray ad indossare la proverbiale mascherina
nera. Con un Johnny Depp così in forma, Jay Silverheels (il Tonto televisivo original vintage) può invocare canti di battaglia
sul piede di guerra... ne siamo più che sicuri
!
Paolo
Vannucci
giovedì 20 giugno 2013
SUPERMAN REBOOT!
Dopo Brian
Singer, il ritorno del kryptoniano più prolifico della DC affidato a Zack
Snyder, con Henry Cavill ad indossare la Super S, nella riedizione più umanista
che il cinema abbia potuto regalare
Restyling dei personaggi creati da
Siegel & Shuster, per una inedita versione dell’eroe fondatore del fumetto
della DC Comics.
Nemmeno i
creatori originali del celebre superuomo avrebbero potuto desiderare di meglio.
Quel piccolo alieno, orfano di un pianeta distrutto dall’implacabile Sole Rosso
(ogni riferimento al nostro sistema è puramente scontato), timido e occhialuto
come vuole la tradizione di ogni feticcio freak, ma che nasconde il segreto più
tremendo che ogni essere umano possa “portare”, è tornato. Da quelle strisce
disegnate da Joe Shuster e scritte da Jerry Siegel ne sono passate di
trasposizioni più o meno riuscite. Dai programmi radiofonici statunitensi alla
prima apparizione televisiva a cui George Reeves ha donato il fisico vestito da
quella inimitabile calzamaglia rosso-blu che ha siglato la celebre frase
“questo è un lavoro per Superman”, nel primo film realizzato nel ’51 (Superman and the Mole Man), per poi
aspettare altri vent’anni per riavere un omonimo attore nel nome di Christopher
(sempre Reeve), che nell’arco di dieci anni gira quattro episodi che lasciano
un feticcio di vero culto amarcord per tutti gli estimatori del fumetto
originale, prestando maggiore attenzione al primo di Richard Donner, celebre
per quei dieci minuti affidati al grande Marlon Brando nei panni del padre
alieno Jor-El, ricevendo un onere di tre
milioni di dollari per tanta presenza scenica di parte. Musica firmata John
Williams, a cui hanno dato forza e rinascita le stesse gesta riproposte nel
2007 da Brian Singer (ennesimo ventennio di attesa), esperto del mondo Marvel
con il prototipo degli X-Men per riprendere la storia laddove lo stesso Reeve
aveva posto la firma come sceneggiatore del suo quarto capitolo, prima che rimanesse
vittima di quell’incidente che lo ha paralizzato, nella stessa sfortunata sorte
del predecessore, morto anch’esso per un “presunto” suicidio riportato sullo
schermo da Ben Affleck in Hollywoodland.
Se a Singer è stato rifiutato un sequel, a Zack Snyder è stato affidato il
“pesante” compito di dare ritrovata stima alle origini di Kal-El (noi possiamo
crogiolarci nell’originale Nembo Kid ribattezzato dalla Mondadori nel ’54),
immergendo i personaggi in quella atmosfera da graphic novel tanto riuscita in 300, per dare un risvolto più umano (minimalista
anche nel titolo, Man of Steel) ai
conflitti interirori che si celano dentro ogni superuomo, metafora moderna oggi più che mai di tutte le aspirazioni,
riadattando la storia originale con un tocco di sapienza in più. Ci ritroviamo così
un Russell Crowe in perfetto stile, per un Jor-El monolitico tanto quanto
Brando, per proteggere un orfanello che si annoda una tovaglia al collo tra le
lenzuola della madre, per segnare quell’infanzia che lo porterà a non
dimenticarsi di un padre (Jonathan Kent, riproposto da Kevin Costner) che lo
affida al suo mondo, in quella lotta tra
il bene e il male ripiegata in uno dei Supercattivi Kryptoniani per eccellenza,
nelle ire di un Generale Zod (Michael Shannon) che induce un solitario eroe a
dare valore alla propria ragione di esserlo. Bellissimo Henry Cavill nel ruolo
più rischioso tra tutti i mutanti a fumetti, ristabilendo un rispettabile
ordine al prequel devoto alle strisce degli anni 40 avvalorate da Brandon
Routh. Riuscirà la nuova Lois Lane (Amy Adams) a dare un pò di amore a tanta
sofferta disputa?
Paolo
Vannucci
mercoledì 29 maggio 2013
DiCinema: la nuova Hollywood
Un viaggio
nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di
miti in celluloide
Uno dei volti più rappresentativi
della Hollywood “perbene”, nel fascino senza
tempo di un talentuoso Leonardo DiCaprio.
Di ragazzini
prodigio battezzati nelle serie televisive, varcato il nuovo millennio, sembra che se ne possano disperdere i
proseliti, visto con quanta commerciale audacia possano essere riciclati senza
tante pretese. Ma questo non poteva succedere tanto facilmente, naturalmente
quando si punta il dito nella culla sempreverde degli anni ’80, che ha visto
crescere alcuni dei talenti cinematografici che hanno firmato il proprio nome
nella walk of fame dello star system americano. Da Michael J. Fox a Tom Hanks,
da Ricky Schroder a Ron Howard, tanti aspiranti giovani attori hanno avuto il
merito di essere veri e propri talenti che hanno saputo mantenere alte le
aspettative di critica e meritato successo. Leonardo DiCaprio, classe ’74, è
decisamente uno degli ultimi “astri nascenti” di una felice casistica di
giovani pargoli. Partendo da un tanto altisonante cognome paterno, fumettista
dalle origini italo-napoletane, e da un nome avuto in merito ad un quadro del
noto Da Vinci, mentre la madre lo ammirava col piccolo in grembo, la carriera
dell’attore non poteva essere di miglior auspicio, contando su simili
presupposti natali. Iniziato dalla soap opera Santa Barbara e proseguito il cammino nel più renumerativo Genitori in blue jeans, il cinema lo accoglie con lo splatter Critters 3, firmato Kristine Peterson,
per approdare alle soglie del successo, dietro l’ombra di un avviato Johnny
Depp, nel Buon Compleanno Mr.Grape,
firmato Lasse Hallstrom. Il successo comincia ad arrivare con il biopic Poeti dall’inferno, diretto da Agnieszka
Holland, incentrato sullo scomodo rapporto omosessuale tra la coppia Arthur
Rimbaud e Paul Verlaine (David Thewlis), con un’interpretazione del giovane
DiCaprio che si preparava ad affrontare il successo venuto l’anno successivo
(1996), con la fresca e originale riedizione del classico di William
Shakespeare, Romeo+Giulietta, diretto
da Baz Luhrmann (oggi alle prese con Il Grande Gatsby), in coppia con la
docile Claire Danes. In contemporanea col meno pretenzioso La Stanza di Marvin (al fianco di Meryl Streep), il successo femminile del neo-Romeo si
riconferma con il Kolossal firmato James Cameron, Titanic, dove Kate Winslet sancisce un epico sodalizio
cine-sentimentale, ripreso dieci anni dopo col meno pluripremiato (11 statuette
per la cronostoria del transatlantico più renumerativo della storia del cinema)
Revolutionary Road, con la “mano
felice” di Sam Mendes che, analogalmente al fortunato American Beauty, cerca di dare una risposta adeguata al quesito
lasciato aperto da Cameron, sondando con amarezza le difficoltà di una coppia
“troppo importante”. Di riuscito richiamo, rimangono il “sospeso” Prova a prendermi, firmato da un
insolito Steven Spielberg, in coppia con un Tom Hanks più in sintonia con i
ritmi tipici del regista e lo storico classico, tratto dalla trilogia di Dumas,
La Maschera di Ferro, nei panni del
gemello di Re Lugi XIV, tenuto nascosto alle spalle del mondano fratello
sovrano e liberato dai ripresi e inediti tre moschettieri, con il guascone
Gabriel Byrne nei panni di D’Artagnan. Martin Scorsese lo ha diretto a più
riprese, cominciando con Gangs of New
York (2002), il capolavoro mancato del regista, in una sterile storia
cucita sullo spaccato storico di un’America prossima alla guerra Civile,
comprimario Daniel Day Lewis nei panni di Bill il Macellaio, padre adottivo del
giovane DiCaprio, di cornice alla storia. Segue The
Aviator (2004, Golden Globe come miglior attore), biografia sceneggiata
sulla vita del magnate, produttore (regista di due film) e costruttore di aerei
(proprietario della TWA), Howard Hughes, per proseguire con The
Departhed – il bene e il male, nuova incursione del regista sulla malavita
organizzata, graniticamente fossilizzata con un Jack Nicholson forse troppo
prosaico, per finire con Shutter Island, una sorta di redenzione
sulle estreme condizioni a cui vengono sottoposti i detenuti, riversando sul
ruolo di DiCaprio le angosce già esplorate da Eastwood in Changeling. Riuscito dramma fantasy-politico diretto da Christopher
Nolan (il papà dell’intera trilogia dell’ultimo Batman), con Inception (Ellen Page e Gordon Levitt da spalla), interessante
tessitura psicologica ad opera degli effetti speciali, sulla manipolazione celebrale, già avvalorata nell’83 da Douglas
Trumbull con Breinstorm – generazione
elettronica. Ad un soffio dall’Oscar per J. Edgar, diretto da Eastwood, sulle tracce del biopic più
controverso sulla vita del fondatore dell’F.B.I., Edgar Hoover. Una carriera
decisamente di tutto rispetto, per un giovane quarantènne che si può permettere
il lusso di raggelare i propri fuochi di successo, con l’incursione western
estrema di un Quentin Tarantino sempre in cerca di prodezze da Oscar, vedi
l’ultimo Django Unchained.
P. A. Vannucci
martedì 7 maggio 2013
DiCinema: la nuova Hollywood
Un viaggio
nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di
miti in celluloide
Duri a
morire... è proprio il caso di dirlo, quando il cinema americano è sempre stato avido di protagonisti in grado di
sostenere un non facile fardello di credibilità, suddivisa nel clichè assoldato
dai ruoli e la stessa tempra dell’attore. Chi si è cimentato in una simile
impresa, dai celebrati Robert Mitchum, maschera quasi dandy di un machismo ben
arbitrato, passando da I forzati della
gloria (The Story of G. I. Joe),
il caposaldo di un cinema documentaristico nella propria assoluta devozione, al
compendio devoluto nel Sangue sulla Luna
(Vento di Terre Selvagge), dove la metamorfosi umana del potagonista segue
una redenzione quasi prosaica del duro da intenditori, possiamo resettare
l’antagonismo caratterizzato da un Yul Brynner, che facilmente poteva passare
da ruoli di comprimaria cattiveria al classico sentimentale, vedi i più
rappresentativi Agli ordini del Fuhrer e al servizio di Sua Maestà, per deliziare i
palpiti femminili con il tradizionalismo espresso dal sempreverde Anastasia. Bruce Willis (Walter
all’anagrafe, classe ’55) è senza dubbio il più alto esponente di un cinema
adrenalinico con ampi crediti da kolossal commerciali. Di controversi natali (è nato in una base
militare tedesca, da padre meccanico e madre casalinga), dopo un college d’Arte
Drammatica interrotto per seguire la propria indole artistica, la solita
gavetta di mestieri umili (dal barista al camionista) lo porta ad affrontare le
prime esperienze professionali, passando dalla profetica sostituzione in un
musical a scapito di Ed Harris, a cui si susseguono provvidenziali
partecipazioni e occasioni mancate (una parte “glissata”al Cercasi Susan disperatamente di
Madonna), per approdare, da vero protagonista, alla serie televisiva Moonlighting, fortunata saga
giallo-romantica, trasmessa dal 1985-89 al fianco di Cybill Shepherd, mentre la
commedia di Blake Edwards lo raccoglie ancora fresco di programmazione per le
analoghe performance di Appuntamento al buio (1987),
rocambolesca soap rosa al fianco di Kim Basinger, e Intrigo a Hollywood. La vera performance che marchierà la tempra di
Willis arriva con la regia di John McTiernan, nel Trappola di Cristallo (Die Hard), apparentemente un innocuo
rifacimento dell’originale Inferno di
Cristallo, firmato da Guillermin, per diventare una inedita trilogia fine a
stessa, arrivata sino al capitolo odierno con l’epitaffio “Un buon giorno per
morire”, siglato John Moore. Robert Zemeckis lo riabilita alla commedia con
tanto di effetti speciali ereditati dalle fatiche spielberghiane, nel suo La Morte ti fa bella, mentre Quentin
Tarantino non può che approfittare del proprio taglio di attore, per non
assecondarlo in Pulp Fiction. Uno dei
primi registi ad immolarlo in una inedita dimensione data al cinema di fine
secolo (siamo nel 1997) è Luc Besson, con una piccola gemma di fantasy che
mette in ombra il capolavoro di Scott e Lang (rispettivamente Blade Runner e Metropolis), ne Il Quinto
elemento. Una moderna e urbana visione del futuro, con una Milla Jovovich,
barocca e sensuale icona femminile (vestita da Jean Paul Gaultier) all’altezza
di un cinema francese che ha saputo ammaliare Hollywood. Analogo è il più
introspettivo dramma ritratto da Terry Gilliam, L’Esercito delle 12 Scimmie, con un Brad Pitt all’altezza dei
ranghi. Il ciclone Armageddon,
pilotato dal Re Mida Michael Bay, lo consacra
definitivamente attore di culto, in una miscela di citazioni, tessute su una
sceneggiatura che vuole uscire dai margini del disaster movie, per desistere
dall’essere semplice film da blockbuster. Considerando la parentesi privata di
Planet Hollywood (non di meno il matrimonio con l’attrice Demi Moore), la
catena di ristoranti per celebrity voluta insieme a Stallone e Schwarzenegger,
con i quali gira la serie di film I
Mercenari (tra camei e protagonismi
di convenienza), la punta di diamante del fumetto d’autore, Frank Miller
(insieme ai registi Robert Rodriguez e Quentin Tarantino), lo immortala nel
bianco e nero “rossosangue” di Sin City,
cult della graphic novel moderna. Tema che incoraggia e motiva il regista Jon
M. Chu a definire un ponte degno dell’attore con il culto dei comics G.I. Joe,
nell’omonimo “La Vendetta”, ristabilendo quel vincolo naturale che, già nel film
di William A. Wellman (girato in contemporanea con il secondo conflitto
bellico), ha sempre stabilito il legame di appartenenza ad una categoria di
uomini che cadono, si rialzano e sopravviveranno per sempre.
Paolo Vannucci
lunedì 8 aprile 2013
BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE... e si gira!
Ritornano Leo & Beatrice, novelli
Romeo & Giulietta revisionati dal professore liceale D’Avenia, per deliziare
il genere adolescenziale iniziato da Federico Moccia.
“Formula giusta
non si cambia”, sembra suggerire la nuova commedia italiana rivolta ai
giovanissimi, arrivando persino a prendere in prestito volti e atmosfere che
sfiorano il plagio dei diritti d’autore. Tanto nessuno se ne accorge, almeno
così si augurano i produttori di un cinema italiano che ha trovato una strada
battuta dalla fiction televisiva dalla quale nessuno vuole recedere, e ne sa
qualcosa la giovane Aurora Ruffino, oggi Silvia, al fianco di Filippo
Scicchitano, ex Scialla comprimario di
Fabrizio Bentivoglio, immersi in quella voglia di crescere che non arriva
mai... e quando arriva è ormai troppo tardi. L’importante è cogliere
quell’attimo, viverlo e colorarlo meglio che si può, complice l’avidità di chi
l’adolescenza l’ha già vissuta, meglio se è anche un professore di lettere
ancora troppo giovane per smettere di guardare il mondo con gli occhi di un
sognatore. Il professore è svelato, dietro i riccioli ribelli e ossigenati di
un Alessandro D’Avenia che ha saputo calarsi nel ruolo di scrittore, con un
corso di sceneggiatura e la capacità di riadattare la propria esperienza di
giovane professore di un liceo qualunque, al servizio di quella fantasia
intrisa di filosofia e poetica che, forse, “rompe” soltanto un pochino, ma
sempre quel tanto che basta per farci essere sempre migliori. La storia la
conosciamo tutti, almeno per chi il libro, da cui è tratto il film, lo ha
divorato. Leo (Scicchitano), sedicenne immerso nel suo problematico mondo di
studente, con l’amico Niko (Romolo Guerreri) compagno di vita e di calcetto.
Poi c’è Silvia (Ruffino), seduta al banco di scuola e innamorata persa di
quell’incosciente che pensa sempre a Beatrice (Gaia Weiss), bella e destinata a
morire, tra quei capelli rossi che svaniscono tra le lenzuola bianche di un
ospedale. Nomi importanti, che sembrano emergere dalle pagine del libro di
letteratura del Sognatore (Luca Argentero) che ammonisce di congiuntivi e prosa
le incertezze dei propri studenti. Una storia come tante, ma che riesce a dare
vita ad un film carino e convincente, proprio come i colori che lo devono
caratterizzare, il Bianco e il Rosso, appunto. Una regia riposta in Giacomo
Campiotti, che ha saputo cogliere il meglio dei suoi recenti predecessori,
ripescando Questo piccolo e grande Amore
di Riccardo Donna, sulle note della celebre canzone di Claudio Baglioni, in
quel valzer di colore e musica architettata ad arte, per saper essere cinema
che può ancora valere il prezzo di un biglietto. Le note della canzone dei
Modà, Se si potesse non morire,
riesce a convincere quel scetticismo quanto basta, coreografando un videoclip
che merita il successo di un film che vuole rimandare sempre l’attenzione al
libro da cui è stato tratto. Merito di quel giovane professore di Lettere, cha
a forza di sognare è riuscito a trovare la propria strada. Complimenti...
Paolo Vannucci
giovedì 28 marzo 2013
IL CACCIATORE DI GIGANTI: il ritorno di Jack e il fagiolo magico
Bryan Singer
dirige Nicholas Hoult, nel reboot ufficiale della celebre fiaba popolare
inglese, con un cast d’eccezione tra i prodigi in 3D
Ritornano le imprese narrate da
Benjamin Tabart e Joseph Jacobs, nel restyling diretto dal “papà” degli X-Men,
Bryan Singer.
“Ucci, ucci
sento odor di cristianucci”. Lo ha
esclamato il Bryan Singer che ha resuscitato il fumetto di Siegel & Shuster
nel mantello di Kal-El (Superman returns)
e il prequel della dinastia degli X-Men,
in attesa dell’imminente seguito del giovane gruppo capitanato da McAvoy. Se la
fortuna del regista è legata alle gesta di eroi di carta (e qui si parla di una
delle fiabe più popolari, tramandate dalla cultura inglese e importata dalla
voracità statunitense), allora ci troviamo al cospetto di una delle più belle e
meritate trasposizioni “computerartigianali” che farebbero invidia persino a
zio Walt (Disney), quando nel 1947 si cimentò voce e disegni nel quarto
lungometraggio d’animazione “di gruppo” (il nono di serie) distribuito dalla
RKO, deliziandoci con un Topolino, Pippo e Paperino alle prese con la
proverbiale scalata alle spalle del pacioso gigante (Bongo e i tre avventurieri), frutto miracoloso della crescita del
germoglio leguminoso più promettente che si possa sperare. Se l’ilarità da
sempre tramandata sin dalla prima pubblicazione The History of Jack and the Bean-Stalk (stampato da Benjamin
Tabart), è sempre stata la chiave di lettura che è la madre delle favole
folkloristiche di ogni tempo, Nicholas Hoult è praticamente perfetto per
immergersi nel mondo fantasy popolato da sortilegi e magie, quasi un
promettente e aspirante stregone in quel di Merlino (impossibile non fare
riferimento alla fortunata serie televisiva omonima, trasmessa dalla BBC con
Colin Morgan interprete, a cui lo scenografo Gavin Bocquet deve i propri
meriti), nei panni analoghi di un timorato Jack che si trova costretto a
difenedere le proprie terre dal Mondo dei Giganti, risvegliati, irritati e cocciuti
nel reclamare la legittima podestà del proprio regno. Che di Leggenda sia,
leggenda sia fatta... anche se questi “stralunati bamboccioni” di cattivo
sembrano aver ben poca fattezza, confidando nella propria proverbiale indole primitiva,
confrontandosi nell’umanità contrapposta dalla nobile casta ridimensionata
dalle vesti regali di Re Brahmwell (uno Ian McShane ormai abituato ad amorfiche
trasfigurazioni, da quando Rupert Sanders lo ha immolato a nano nel suo Biancaneve e il cacciatore), per essere
affiancato da Stanley Tucci (altro cardine d’eccezione, dopo il circense
showman televisivo di Hunger Games), solo per fare breccia nel cuore della
principessa Isabelle (Eleanor Tomlinson), senza tralasciare Ewan McGregor
(Elmont) e Raine McCormack nelle rappresentative recriminazioni da gigante. Gli
ingredienti ci sono proprio tutti, per non deludere tante aspettative, mentre
per ora possiamo solo remunerare l’ultima impresa cinematografica risalente a
dieci anni fa, diretta da Brian Henson, con un Matthew Modine in chiave
dickensiana, per ristabilire ordine nelle dispute genetiche controllate con
etica noncuranza. Che un fagiolo possa destare tanta attenzione, questo lo
staremo proprio a vedere...
Paolo Vannucci
mercoledì 13 marzo 2013
CARLO VERDONE: LA CASA SOPRA I PORTICI... “il film più importante della mia vita”
Uno dei
ritratti più intimisti e celebrativi del regista e attore Carlo Verdone, tra le
pagine della sua biografia, intrisa di ricordi e devozione ad una famiglia del cinema
italiano
La vita dell’attore, raccontata con
la voce dei propri sentimenti, dedicato al padre Mario e la madre Rossana, ai fratelli...
e a quella casa in via Lungotevere.
Una casa
paterna, in via Lungotevere dei Vallati 2, avvolta in quella spogliata
malinconia tipica dell’attore romano che tutti conoscono, attraverso i film e i
personaggi che lo hanno fatto diventare il regista comico che ha saputo
raccontare l’italiano borghese, popolare e “fraccicone”, proprio come il grande Albertone
Sordi nazionale, che poteva spiare dalla finestra di casa sua, sin da
ragazzino, prima di diventare il padre putativo cinematografico che tutti
abbiamo apprezzato ne In viaggio con papà.
Lui è Carlo Verdone, romano verace e fiero
di esserlo, con quell’ umiltà tipica dei propri personaggi, maschera dell’italiano medio degli ultimi 50
anni di Belpaese, attraverso la
maniacale pignoleria di Furio, la stralunata ingenuità da bamboccione di
Mimmo, al fianco di Lella Fabrizi
(insieme hanno girato Bianco, Rosso e
Verdone e Acqua e Sapone), i
capisaldi della propria comicità, scaturiti dal primo contenitore del moderno
varietà televisivo di Enzo Trapani, Non
Stop, nel palinsesto televisivo di Rai 2 del ’78. Il Verdone che non lo ha mai abbandonato, sin
dal pionieristico centauro su due ruote visto in Troppo forte, scritto e interpretato insieme a Sergio Leone, personaggio
ripreso circa dieci anni dopo nel Gallo
cedrone, girato nel ’98... coatto al punto giusto, proprio come i neosposi
di Viaggi di Nozze, complice la
fedelissima Claudia Gerini, nel monito de “lo
famo strano” , voluta anche nel precedente Sono pazzo di Iris Blond, musicista nel nome di quella passione per
la musica che non lo ha mai abbandonato, sin da quando ascoltava i 78 giri in
vinile della madre Rossana, comprati con i soldi dati da zio Gastone (“I dischi non vanno conservati con le
copertine, ma devono essere sistemati in pila l’uno sopra l’altro... che
stronzata colossale!”), mentre col tempo, nelle pareti della sua stanza, ci
appendeva i poster dei Pink Floyd, dei Beatles e di Hendrix... a cui ha
dedicato un altro frammento della propria personalità, nei panni di Bernardo Arbusti,
critico musicale ipernevrotico e con la sindrome dell’analista nel Maledetto il giorno che t’ho incontrato, al fianco di Margherita Buy, sceneggiato con
un io narrante che ricalca fedelmente l’introspezione soggettiva dell’attore,
molto simile al libro odierno. Una
vita di ricordi, di amori e di amicizie, tra il primo trauma subito per la
perdita del nonno materno Aldo (“aprivo
la mano e lui vi posava i due dobloni, poi mi dava un’affettuosa carezza prima
che fuggissi a mangiare quei buonissimi cioccolatini”), alla conoscenza sui
banchi di scuola di un giovanissimo Christian De Sica (il suo personale “Grande
Freddo” con Compagni di Scuola),
corteggiatore di una tredicenne Silvia, sorella dell’attore, passato sotto il
severo permesso di papà Mario (“è
soltanto un pallonaro”), per poter ufficialmente frequentare la donna che
sarebbe diventata la moglie di oggi (sua è la dedica di Io e mia Sorella, al fianco di Ornella Muti). Oggi, quella casa
paterna la guarda dal di fuori, vuota di tutto ciò che un tempo è stata la loro
famiglia, “lontana, per certi versi
estranea”, come una foto del suo volto, “giovane, con i capelli leggermente lunghi, ignaro del futuro che lo
attendeva”.
Paolo Vannucci
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