venerdì 5 aprile 2024

Il mito di Elvis nel vero biopic che ripercorre il mito attraverso gli occhi di Priscilla Beaulieu Presley

PRISCILLA
La regista Sofia Coppola dirige con maestria un film segnato dalle ambizioni di un amore “bruciato” dalle sue stesse paure, interpretato da Cailee Spaeny e Jacob Elordi

Una riuscita operazione commerciale, quella della regista figlia d’arte, conosciuta come Sofia Coppola. E parliamo, si, di una vera macchina propagandistica, debellata dalla stessa famiglia Presley, abituati a quelle proverbiali distanze su come ci si possa arricchire sulle spalle di un mito. Un mito frantumato dalle proprie ossessioni, debolezze, imperfezioni. Come siamo sempre stati abituati a “polverizzare” la vita dell’unico vero Re del Rock ‘n’ roll, sprezzanti di quelle verità che hanno frantumato la sua stessa vita, annullata dai farmaci e dai propri sbagli. Quelli che i fan non hanno mai voluto perdonare al proprio mito. Unica tra tutti proprio lei, l’artefice del suo stesso abisso, unico per entrambi. Un grande amore, vissuto nel nome della passione e dei tradimenti, raccontato nella biografia scritta da Priscilla assieme a Sandra Harmon, senza tralasciare nulla a chi si vuole nutrire delle ceneri di una storia consumata. E il cinema degli ultimi anni ci ha sempre insegnato come difficile sia raccontare i segreti di chi divide la propria vita con chi abusa dei privilegi del prossimo. Sofia Coppola ha avuto la delicatezza di non “sgretolare” l’identità di un amore condiviso, nato giovanissimo per entrambi. Lui ventiquattrenne e lei appena quattordicenne. Lui giovane star in ascesa, lei piccola studentessa immersa in quell’alcova famigliare fatta di patriarcale protezione e perbenismo cattolico americano. Lui imperfetto nella sua gabbia d’orata, lei vittima della sua stessa adorazione. Una Priscilla, interpretata dalla ventiseienne Cailee Spaeny, un po’ distante dalla vera persona, ma sempre autentica nella riuscita rappresentazione di una purezza dei sentimenti. Quelli così facili da provare per chi poteva godere di una attenzione così troppo grande da assecondare. Un Elvis, interpretato da Jacob Elordi, così simile al mito (non solo fisicamente), così sbagliato nelle sue paure e debolezze. Imperfetto, si, ma sempre unico. Sui giornali scandalistici, le riviste di musica, le locandine dei concerti, i manifesti dei suoi film. Sempre tanto e troppo… di tutto.

Sofia Coppola ha saputo tratteggiare al meglio una biografia essenziale (Elvis and Me), scarna degli abbagli musicali delle sue stesse canzoni (rifiutato il permesso di usufruire dei loro diritti) ma saturo di tutto quello che serve per confezionare la stessa rovina di un rapporto cresciuto “malato”. Il cinema della Coppola è cresciuto bene, partendo da quell’esordio nel nome di Il Giardino delle Vergini Suicide, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides per finire a L’inganno, corale reunion di attrici nel nome di un cinema che sa il fatto suo. Una celebrazione deviata, come tanti tentativi riusciti nella stessa maniera. Parliamo delle fragilità inespresse nella sua vera natura di una Diana Spencer consumata da quegli abusi che la famiglia reale ha sempre sostenuto. Per approdare nelle ridondanti scanalature di una Jackie Kennedy Onassis, così scomoda nelle vesti della sua stessa esistenza (come la stessa Natalie Portman poteva sembrare insolita nella sua interpretazione).

Un film ben costruito, sostenuto dalle scenografie dosate di Tamara Deverell, in quella Graceland barricata dai suoi stessi fan e sapientemente riproposta nella sua d’orata magnificenza. Soporifera e allentata dai ricordi di un amore che si chiude come quei cancelli che segnano la fine di una favola che, per tutti noi, continuerà a cantare sulle note delle sue canzoni.

Paolo Arfelli Vannucci

lunedì 11 marzo 2024

OSCARS 2024: Vincitori e Vinti di un anno di grande cinema

OSCAR 2024
Una cerimonia all’insegna della sobrietà, per vedere trionfare il film “Oppenheimer” di Christopher Nolan e la struggente visione offerta da Yorgos Lanthimos, nel suo “Povere Creature”

Una cerimonia di grande stile e contegno, come non se ne vedevano da decenni. Tutto per celebrare un anno di cinema che finalmente può dire di essersi liberato da convenzioni scomode di rito. Sì, perché quel cinema saturo di realtà surrogate cominciava a dare fastidio, proprio perché stava inquinando la bellezza di una settima arte che, oggi più che mai, riesce a essere testimone di una evoluzione dinamica di un arte che sa stare al passo con i tempi. Anzi, di più. Abbiamo, quindi assistito a una premiazione minimalista, che ha saputo valorizzare la grandezza di un arte visiva e sonora che, nel corso di un 2023 ancora “rovinato” da conflitti bellici che non vogliono vedere lo spiraglio di una fine, ha saputo rimboccarsi le maniche e dare il meglio di se. Al cerimoniere Jimmy Kimmel è toccato la quarta conduzione, dimostrandosi all’altezza della serata, senza scivoloni di ilarità volgari o poco consone alla situazione. Questo vuol dire che le “nudità celate” di John Cena sono apparse pudiche e pulite, per contornare di sano divertimento una consegna delle statuette all’insegna dello stile.

Ha fatto da padrone il premiato Christopher Nolan, con il suo Oppenheimer, raccogliendo ben sette statuette, tra cui miglior film, regia e attore protagonista, Cillian Murphy. La tanto attesa conferma di Emma Stone è arrivata proverbiale, ricevendo quel riconoscimento a miglior attrice per una pellicola visionaria e rimarchevole. La solita delusione per un cinema italiano ancora assente non poteva stonare, almeno per chi credeva che il cinema di Garrone (era in corsa con Io Capitano) potesse ritoccare le sorti di un Pinocchio ancora bruciante e carico di aspettative. Quelle solite confermate dall’ennesima statuetta ricevuta per il Miglior film di animazione, andata a Miyazaki (il suo secondo Oscar, dopo quello vinto nel 2003 con La città incantata), accostabile all'onorificenza massima toccata a Takashi Yamazaki, Kiyoko Shibuya, Masaki Takahashi e Tatsuji Nojima per gli effetti visivi. Di forte impatto emotivo la consegna degli oscar per Robert Downey Jr.e Da'Vine Joy Randolph (Migliore Attore e Attrice non protagonisti). Divertente il cammeo rilasciato da Arnold Schwarzenegger e Danny DeVito, nel loro duetto a distanza in sala con Michael Keaton comodamente seduto, incorniciando una serata di emozioni impreziosite dai vocalizzi musicali di Billie Eilish e lo stesso Andrea Bocelli con il figlio Matteo. Degno di citazione, l’entusiasmo di un talentuoso Ryan Gosling, nel ricordarci le plastiche visioni di un Ken “abbandonato” da una Barbie che ha racimolato gli oneri per la migliore canzone originale.

Di seguito, tutte le statuette della cerimonia:

Miglior film

Oppenheimer, regia di Christopher Nolan

Miglior regista

Christopher Nolan - Oppenheimer

Miglior attrice

Emma Stone - Povere creature! (Poor Things)

Miglior attore non protagonista

Robert Downey Jr. - Oppenheimer

Miglior attrice non protagonista

Da'Vine Joy Randolph - The Holdovers - Lezioni di vita (The Holdovers)

Miglior sceneggiatura non originale

Cord Jefferson - American Fiction

Miglior sceneggiatura originale

Justine Triet e Arthur Harari - Anatomia di una caduta (Anatomie d'une chute)

Miglior film internazionale

La zona d'interesse (The Zone of Interest), regia di Jonathan Glazer (Regno Unito, Polonia)

Miglior film d'animazione

Il ragazzo e l'airone (君たちはどう生きるか?, Kimi-tachi wa dō ikiru ka), regia di Hayao Miyazaki

Miglior fotografia

Hoyte van Hoytema - Oppenheimer

Miglior scenografia

James Price, Shona Heath e Zsuzsa Mihalek - Povere creature! (Poor Things)

Migliori costumi

Holly Waddington - Povere creature! (Poor Things)

Migliori trucco e acconciatura

Nadia Stacey, Mark Coulier e Josh Weston - Povere creature! (Poor Things)

Migliori effetti visivi

Takashi Yamazaki, Kiyoko Shibuya, Masaki Takahashi e Tatsuji Nojima - Godzilla Minus One (ゴジラ-1.0マイナスワン)

Miglior montaggio

Jennifer Lame - Oppenheimer

Miglior sonoro

Tarn Willers e Johnnie Burn - La zona d'interesse (The zone of interest)

Miglior colonna sonora originale

Ludwig Göransson - Oppenheimer

Miglior canzone originale

What Was I Made For? (musiche e testo di Billie Eilish e Finneas O'Connell) - Barbie

Miglior documentario

20 Days in Mariupol, regia di Mstyslav Černov

Miglior cortometraggio documentario

The Last Repair Shop, regia di Kris Bowers e Ben Proudfoot

Miglior cortometraggio

La meravigliosa storia di Henry Sugar (The Wonderful Story of Henry Sugar), regia di Wes Anderson

Miglior cortometraggio d'animazione

War Is Over! Inspired by the Music of John & Yoko, regia di Dave Mullins

Paolo Arfelli Vannucci

sabato 9 marzo 2024

Timothèe Chalamet è di nuovo Paul Atreides nel sequel “Dune – Parte II”

Timothée Chalamet è PAUL ATREIDES
Il regista canadese Denis Villeneuve torna a dirigere un cast corale per la seconda parte dell’inedita trilogia dei romanzi di Frank Herbert

A tre anni dall’uscita del primo capolavoro del regista Denis Villeneuve, vincitore di ben sei statuette impalmate dalla Academy, arriva sugli schermi il secondo capitolo della saga, tratto dalla seconda parte del primo romanzo scritto da Frank Herbert, Dune. Un autentico e magistrale estratto di quel mondo epico fantascientifico che ha tratteggiato i caratteri aspri e taglienti di una casta eletta di nobili regnanti, in un mondo conflittuale dove potere e politica sono sorretti da una spezia intesa come nutrimento vitale intriso nella stessa Acqua della Vita, potenzialmente mortale e rigeneratrice delle stesse anime di cui si nutre. Una sottile linea di confine tra due mondi che parlano con la profonda voce di una conoscenza sorretta da una sacralità tramandata da una élite che impone il proprio sapere, come una sorta di casta femminile e portatrice di un dono celato e ambizioso. Quel mondo interiore a cui sente di appartenere il primogenito Paul Atreides, conflittuale e redentore come gli stessi dubbi che lo trascinano allo stesso destino di una famiglia perseguitata nel nome del tradimento.

Le forti tinte di un sequel tratteggiato in modo sublime, dove gli umori acri di una sacralità amara vengono orchestrati e assorbiti dalle capacità espressive dei suoi interpreti. Enigmatico rimane il protagonista sorretto da una longilinea grazia, nelle forme nervose e scaltre di un attore che sembra continuare la sua ascesa di fortunati ruoli, dove la mimica dei personaggi interpretati sembra annullarsi nel riciclo dei suoi stessi caratteri. Timothée Chalamet è il nuovo Re Mida dello star system di Hollywood, passando da quei successi che parlano nel nome di Piccole Donne (regia di Greta Gerwig, 2019) e lo stesso Wonka (diretto da Paul King, 2023), nelle stesse doti riconosciute da un Woody Allen che lo ha diretto nel suo Un giorno di pioggia a New York. A sostenerlo, valgono le decise prove di attore di una nutrita alcova di ottimi comprimari, passando da un ritrovato Javier Bardem nel ruolo di Stilgar, leader dei Fremen, colui che più crede nella profezia dello Lisan al-Gaib (il messia che porterà il popolo di Arrakis al Paradiso). Josh Brolin riveste il ruolo di Gurney Halleck, il mentore di Paul, mentre Christopher Walken evoca il cardine di Shaddam IV, il mandante dello sterminio della casta degli Atreides. Di prima grandezza il parterre femminile, guidato da una Charlotte Rampling d’effetto, nel ruolo della Reverenda Madre del Bene Gesserit. Ad affiancarla, le valide prove di Zendaya nel ruolo di Chani (la guerriera dei Fremen, primo amore del giovane Atreides e contraria alla divinizzazione del presunto Messia), e la stessa Rebecca Ferguson, nel ruolo di Lady Jessica, madre di Paul.

Un film perfetto nella sua esecuzione, dove i temi sacri sono abilmente sottolineati dalla partitura di un collaudato autore che risponde al nome di Hans Zimmer (Inception e Pirati dei Caraibi, già vincitore dell’Oscar per le musiche del primo capitolo del 2021), mentre per le location possiamo ritrovare le fortificate terre italiche di Attivole, in provincia di Treviso, con incursioni ad Abu Dhabi e le provincie della Giordania. Un film contemplativo ed epico, dove fede e tradizione sono le sole porte da attraversare, nei complessi sentieri della Vita di ognuno di noi.

Paolo Arfelli Vannucci