lunedì 26 settembre 2022

Oasis Supersonic… e oltre il Britpop

OASIS SUPERSONIC

Il rapporto emotivo dei fratelli Gallagher, in un viaggio introspettivo attraverso la musica e la propria ascesa

Ogni decade ha inesorabilmente tracciato un passaggio musicale che ha potuto elargire quella metamorfosi di stile, dove la genialità espressa dall'artista ha sempre potuto delineare la nascita di un genere innovativo, come testimoni di un tributo a quelle radici che si fondono con la continua ricerca di tecniche sperimentali che stabiliscono le frontiere della musica moderna. Ciò che si è delineato come Britpop ha visto la caratterizzazione di una acusticità repressa nel culto pop degli anni '80, totalmente rivoluzionata da un ritrovato bisogno di riportare la musica al suo stato “primitivo”, spogliandosi di quei virtuosismi delineati dall'abile uso di arrangiamenti sinth che hanno indubbiamente traghettato il sound verso una visione più commerciale del prodotto discografico. Il regista Mat Whitecross (con la produzione di James Gay Rees e Asif Kapadia, vincitori dell'Oscar per il film su Amy Winehouse) ha potuto dare valore ad un gruppo musicale che ha saputo valorizzare quelle timbriche “rudimentali”, abbracciando un periodo di nascita e crescita che è iniziato nel 1991 sino allo scioglimento avvenuto nel 2009. Gli artefici di questo fenomeno chiamato Oasis sono, indubbiamente, i fratelli Noel e Liam Gallagher (produttori esecutivi del docu-film), raccontati da un regista che ha ricucito la crescita umana di due ragazzi che hanno trasformato la loro voglia di emergere dall'ambiente sottoproletario di Manchester, con una lente lasciata più ad un ipotetico collage di frammenti fotografici ed emotivi, dando una dimensione umana a quel talento che è nato a rilento, per diventare quasi una forma di riscatto nella determinazione dell'essere “unici”, proprio come il titolo del primo singolo pubblicato, Supersonic.

Il rapporto con la madre Peggy, amorevole verso i tre figli (Paul, Noel e Liam) ai quali non ha mai negato il bisogno di esprimersi attraverso la loro crescita personale, è filtrato da un ritratto di legame solido, nonostante l'assenza di un padre alcolizzato che viene tenuto relegato inizialmente in secondo piano, per raccontare la vita comune di una normale famiglia senza apparenti problemi o ripercussioni emotive. Quelle che poi fa riaffiorare prepotentemente Noel, dipingendo il padre come quel meschino che ricorreva alle percosse non solo su di lui, ma su quella figura materna che ha saputo reagire ad una situazione di forte disagio, per riuscire a scappare di casa e poter far crescere i propri figli lontani da una figura paterna incapace di esserne all'altezza. E la figura materna viene ripresa dal regista in diversi momenti della scalata al successo dei propri figli, attraverso quei filmini sgranati che hanno una luce opaca e pigmentata dalla stessa umanità espressa dai ragazzi, sino a quel riavvicinamento paterno in prossimità di uno dei concerti del gruppo, in quella telefonata ricevuta da Noel, minacciando il padre al punto di farlo ricorrere all'uso dei media giornalistici per avvelenare un rapporto ormai naufragato per sempre.

Stilisticamente, una fotografia praticamente assente, dove la storia della band è l'unica protagonista assoluta di un documentario che esclude, praticamente, ogni legame esterno alla vita musicale di Noel e Liam, ribelli e scapestrati quasi controvoglia, come qualsiasi ragazzo che divide la propria vita tra lo studio e l'amore per il calcio. Lo stesso flashback iniziale di uno dei concerti più memorabili degli Oasis, quello tenuto a Knebworth Park nell'agosto del 1996, usato come prologo di un racconto che si addentra nell'armonia tenuta vincolata dalla tenacia caratteriale di Noel, il più determinato nella crescita musicale del gruppo, ma che ha sempre vincolato la sua creatività alla reattività artistica del fratello, in un rapporto simbiotico fatto di intese produttive nella composizione dei brani del gruppo. Una delle costanti che il regista ha saputo dosare, proprio per far scivolare il documentario, spezzandolo con l'irriverenza di quella genialità che si tinge di quella sregolatezza che ha marcato l'estroversione di un Liam più propenso all'irrequietezza scomoda di chi è consapevole di poter disporre di un ascendente così prepotente sulle masse giovanili, quasi tutelato da un Noel che poteva vantare una capacità tecnica maturata attraverso le trasferte come tecnico delle chitarre degli Inspiral Carpets, prima di fondare la band assieme al fratello e ai tre componenti della prima formazione del gruppo, ovvero Tony McCarroll (batteria), Paul McGuighan (basso), Paul “Bonehead” Arthurs (chitarra ritmica).

La crescita della Band viene scandita dalle trasferte giapponesi e americane, quest'ultima caratterizzata da uno degli episodi più “scomodi” della band, laddove a Seattle, il 23 settembre 1994, inizia il primo tour statunitense degli Oasis, e al Whisky a Go-Go di Los Angeles succede che, infastiditi dagli spettatori e dai fotografi, Liam si inasprisce contro di loro, mentre i componenti della band non riescono a sincronizzare l'esecuzione dei loro pezzi, riprendendo la loro performance tra lo sconforto generale. Ma non è solo Liam a dare il cattivo esempio, visto che ormai la fama di “ragazzacci” del rock sembra prendere il sopravvento sulle qualità stesse del gruppo musicale, visto il dichiarato uso di droghe e alcool da parte di Noel, ammettendo di assumerne in dosi abituali come una normale tazza di tè. Ma la popolarità della band è ormai all'apice e con l'uscita del secondo album (What's the Story) Morning Glory?, inizia la consacrazione della band con un sound più melodico e legato al grande successo in ascesa, confermato dal singolo Wonderwall, uno dei cult generazionali per tutti i fan degli Oasis, vincendo tre BRIT Awards come miglior band inglese, ma rifiutando con irriverenza la consegna del premio in una disputa tenuta da Noel con il conduttore Chris Evans.

La fama cede, poi, il posto all'umiltà dei due fratelli, che accendono il documentario con la consapevolezza di aver ricevuto molto da tutti quei fan che hanno riconosciuto grande il talento di una band che non ha mai nascosto nulla di se, nella gioia di una madre che ha solo saputo apprezzare la tenacia dei propri figli, in quell'arroganza apparente che svanisce dietro gli sguardi di Noel e Liam, sempre gli stessi bambini che cullavano i propri sogni e che hanno sempre cercato l'uno gli occhi dell'altro, per quell'intesa esternata sul palco e che li ha proclamati autentici pionieri di un genere che ha scritto una delle pagine più grandi e autentiche della storia della musica, accostabili alla grandezza ispiratrice degli stessi Beatles, mantenendo intatta la propria originalità che si fonde con un sentimentalismo riversato in un ringraziamento sentito come un finale tenuto sempre aperto nel cuore di chi ha saputo apprezzare la crescita della loro band… Si, proprio quella dei fratelli Gallagher.

Paolo Arfelli Vannucci


venerdì 23 settembre 2022

Alan Parker: meravigliosamente una vita in musica

ALAN PARKER: Una Vita in Musica

Il tributo più sentito al regista che ha raccontato l’evoluzione di stile di due generazioni che hanno accompagnato la storia musicale del cinema mondiale

Quando i contenuti cinematografici possono diventare delle piccole gemme di autenticità narrativa, la magia che il soggetto riesce a comunicare al pubblico riveste un ruolo di forte impatto, sia nei contenuti che nella riuscita caratterizzazione dei protagonisti. Il merito di Alan Parker è sicuramente uno dei più alti valori cinematografici espressi, in una carriera intrisa di quei sapori di classe proletaria che ha saputo forgiare un cineasta forte della propria consapevole determinazione. Nato e cresciuto nel borgo metropolitano inglese di Islington, la sua abilità si consolida nei primi lavori pubblicitari (la più nota è la campagna della Cinzano), per diventare produttore di se stesso e avviare quella promettente carriera cinematografica che ha visto rivalutare le più espressive icone musicali di mezzo secolo di cinema, arrivando a soppiantare con lo stesso Evita, quella gloria in musical di Norman Jewison (Jesus Christ Superstar), nei vocalizzi sublimi di Madonna Ciccone e lo stesso Antonio Banderas. Una capacità narrativa altamente valutata in quel capolavoro espressionista nella stessa sua combattuta e contradditoria generazione, in Pink Floyd The Wall, per celebrare le proprie origini girando un analogo The Commitments, sulle spalle di quei ragazzi di periferia che vogliono riportare il sound del corposo Soul tra i locali di Dublino, tra i brani di Mack Rice e Wilson Pickett. Un filo conduttore che riscopre quella morale giovanile che è sempre alimentata dalla stessa scintilla emotiva, anche se le mode possono segnare nuove tendenze e la musica cerca di alimentare nuove correnti di stile. Con Sing Street, il regista John Carney ha saputo amalgamare alla perfezione tutti gli stessi ingredienti, partendo da una storia che ci parla con un linguaggio sospeso tra due epoche; il presente e un passato, tra i più nostalgici e caratteristici che si possano definire. Ma il pregio migliore del film è quel sottile surrealismo degli eventi, trasposti in quell'acerbità che non vuole appesantirsi dei problemi degli adulti e che parla magicamente con il proprio linguaggio, innocente e puro. Nel 2007, Jason Reitman ha saputo raccontare le problematiche analoghe di un'età immersa nelle proprie difficoltà quotidiane, regalandoci quel cammeo di Juno, presentato analogamente al Festival del cinema di Roma e che ha affascinato i più scettici della critica, conquistando il premio Marco Aurelio come miglior film. Tutto riversato sulla spontaneità recitativa di Ellen Page e Michael Cera, laddove una maternità indesiderata può riuscire a colorarsi ugualmente di rosa e risultare piacevolmente credibile.

La capacità del regista John Carney, con Sing Street, è proprio quella di amalgamare la sua adolescenza adattandola ad una storia fresca e intelligente, in un periodo in cui la musica commerciale dava più peso all'immagine a scapito di quella qualità che solo i gruppi più originali riuscivano a mantenere. Il risultato è, dunque, apprezzabile, laddove i riferimenti stilistici del periodo si miscelano abilmente tra cinema e musica, senza appesantire un ritmo che trae vigore proprio dalla giusta dimensione lasciata al buon gusto dell'immagine, in quei video girati “sulla strada”, con metodo e intelligenza, proprio come gli originali degli '80, quando il new romantic era quasi un ritrovato stile di pensiero e il grunge sapeva adattarsi alle nuove leggi del mercato discografico. Alan Parker è riuscito, quindi, a costruire un ponte generazionale tra due epoche così vicine e distinte, insegnando un cinema colorato dalla stessa storicità degli eventi (Benvenuti in Paradiso e Mississippi Burning rimangono due ritrovati esempi di stile), laddove il valore musicale rimarrà sempre quella autentica celebrazione di un’arte rilasciata dai suoi stessi protagonisti, da quel poliedrico Fame che ha decantato la crescita di un valore che ha consacrato la stessa grandezza di un regista. Ad Alan Parker, con stima e gratitudine.

Paolo Arfelli Vannucci


giovedì 22 settembre 2022

Oliver Stone e la sua partita con la CIA. A mani scoperte.

OLIVER STONE E LA SUA PARTITA CON LA CIA

Riscopriamo l’ultimo
biopic sull'ex informatico della CIA, Edward Snowden, con un Joseph Gordon-Levitt all'altezza delle aspettative del regista Oliver Stone

Il cinema di Oliver Stone lo abbiamo imparato a conoscere tutti. Una sintassi documentaristica che ha impreziosito i titoli più importanti della sua filmografia, da Platoon, Nato il quattro Luglio e JFK, solo per citare i più importanti Oscar che hanno decretato un successo devoluto da un regista che ha elaborato un cinema di pancia maturato sulla formazione umana personale, garantendo così quell'empatia con il soggetto che felicemente riesce a conciliare quel realismo necessario alla credibilità della propria sceneggiatura. Con Snowden, Stone è riuscito a raccontare, in maniera minuziosa e attendibile, la motivazione ideologica di un ragazzo che ha creduto necessario difendere un diritto umano violato (a suo parere) dallo stesso Governo americano. Un Diritto alla Privacy delle persone che è costato la libertà di chi ha ritenuto opportuno portare allo scoperto la realtà dei fatti: Edward Joseph Snowden.

Centotrentaquattro minuti che iniziano con la determinazione di un Edward Snowden (un credibile Joseph Gordon-Levitt) assillato e paranoico, tra le mura di una stanza di un albergo ad Hong Kong, a rivelare la sua storia alla documentarista Laura Poitras (Melissa Leo) e al giornalista del The Guardian, Glenn Greenwald (Zachary Quinto). Cellulari “sequestrati” e messi in un forno a microonde. Una coperta per nascondere la frettolosa digitazione di una password, per mostrare quella chiave d'accesso informatica ai programmi più rilevanti (il Prism tra i più importanti, per la sorveglianza elettronica dei dati internet) che hanno separato per sempre le strade della NSA (National Security Agency) e del suo delfino più accreditato dallo stesso Corbin O'Brian (un monolitico Rhys Ifans), mentore della CIA, il primo a credere nelle elevate capacità del giovane Snowden.

Centotrentaquattro minuti che raccontano la caparbietà di un ragazzo che vuole servire il proprio paese, arruolandosi nelle Forze Speciali, ma costretto al congedo per un incidente causato dal forte addestramento che il fisico di Edward non può sopportare, rompendosi una gamba e rinunciando all'ambizione più dignitosa della sua vita: quella di combattere in Iraq per liberare le persone dall'oppressione. Ma la fine di quel sogno apre una nuova visione al poco più che ventenne Snowden, decidendo di dare il proprio contributo passando dalla porta principale della CIA, attraverso l'Università del Maryland, per destreggiarsi come tecnico informatico sulla sicurezza. Incisiva è la conoscenza di Hank Forrester (Nicolas Cage, già “arruolato” da Stone per l'anacronistico World Trade Center), amareggiato informatico sul tramonto di una carriera, da cui si è visto sottrarre l'originalità di un programma di sistema che poteva donargli qualche onere migliore.

Centotrentaquattro minuti che raccontano la storia di un amore messo a dura prova dalla stressante routine di un lavoro che lascia poco spazio alle emozioni personali; quella tra Edward e Lindsay Mills (una misuratissima Shailene Woodley), promettente fotografa conosciuta attraverso una “banalissima” chat, per diventare una delle figure più forti e solide nella vita del giovane. Per lui è stata capace di rigenerare la propria vita passando attraverso le esigenze di un protocollo formale che li vede costretti a cambiare destinazione e residenza, riciclando affetti e amicizie, passando dal Giappone alle Hawaii, quest'ultima per assecondare una forma di epilessia che ha destabilizzato la salute di uno Snowden sempre più scosso da quella presa di coscienza maturata da quella “facilità” di controllo di metadati che coinvolge il flusso della vita privata di miliardi di persone, progettando un programma segreto volto a mirare la congestione delle connessioni mondiali in tempo reale.

Centotrentaquattro minuti che raccontano il definitivo distacco di Snowden, nel 2013, dallo stesso Governo statunitense, per quella decisione morale maturata con audacia e la consapevolezza di una via di non ritorno, tracciando un solco incolmabile (definito Datagate) con quella politica propagandistica che aveva abbracciato con un Obama alle primarie, sentendosi poi deluso da quella imponente macchina di protezione che il presidente stesso difende con un Grande Fratello ostentato senza indecisioni o turbamenti etici. Quella fuga dall'Hotel, subito dopo aver raccontato i fatti al reporter Glenn Greenwald, per diventare un esiliato in cerca di protezione, per una pena detentiva che può mettere in serio pericolo la stessa incolumità dei giornalisti che lo hanno appoggiato e sostenuto. Una conferenza tenuta via Internet, protetto dal Governo sovietico, per far sentire la propria voce e la propria ragione, con quella candida coscienza di chi ha sempre creduto nella grandezza del proprio paese.

Centotrentaquattro minuti che hanno, come epilogo, lo stesso Edward Joseph Snowden. Quello reale, che prende il posto di un attore che ha dato voce alla sua ragione, parlando con un sorriso che si apre al mondo, tra quei cortei di protesta che marciano inneggiando alle maschere di Snowden come un simbolico monumento a quell'Anonymous che si rivolge a chi cerca di forgiare una coscienza perduta (falsamente celata dal terrorismo, a detta di Snowden), forse da un sistema che involontariamente può portare morte e distruzione con troppa facilità. Un mondo sorvegliato dai droni, vere macchine da guerra dagli effetti micidiali. Un mondo che, in un decennio, ha conosciuto l'enorme sviluppo di un sistema di comunicazione sorretto da quei social network che hanno agevolato uno scambio di informazioni e di dati dal peso incalcolabile, oggi più che mai sensibilizzato da una campagna per la privacy in rete che vuole riportare il valore autentico dei rapporti interpersonali al giusto equilibrio.

Centotrentaquattro minuti per considerare Edward Snowden un difensore dei diritti umani, per l'impegno e il coraggio con cui ha sostenuto le proprie azioni, per il bene di una popolazione mondiale che rischia di perdere quella dimensione reale a scapito della propria incolumità, civile e morale.


Paolo Arfelli Vannucci

mercoledì 21 settembre 2022

Woody Allen: una metamorfosi di buongusto chiamata 'Cafè Society'

 

WOODY ALLEN ASPETTANDO PARIGI

La smentita di un imminente ritiro, per un regista che continua a deliziarci con le pagine scritte del suo cinema, aspettando Parigi

Pensandoci bene, cosa potevamo aspettarci da un regista che ci ha donato cinquant'anni di carriera cinematografica, distillando ogni sfumatura della sua umanità, riversata in un mestiere che più ti mostri per quello che sei e migliore è l'artista che meriti di essere celebrato? D'altronde, per Allen, il cinema è sempre stato quell'emozione intelligente che si risolve in un contro tempo della risata, proprio come quello swing che traspira da ogni frammento di quel suo ennesimo capolavoro, Cafè Society. Il miracolo di Midnight in Paris si è ripetuto, raccontando un viaggio nel tempo attraverso la dialettica degli attori che meravigliosamente assorbono le nevrotiche ansietà dell'autore. Per Owen Wilson è stato un magico trasporto verso quella “Generazione perduta” degli anni venti in una Parigi popolata da artisti che hanno celebrato il meglio dell'arte mondiale, da Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Salvador Dalì e Picasso, in quel passaggio offerto al rintocco di una mezzanotte incorniciata dalle atmosfere bohémien di una capitale parigina sospesa tra i sogni del protagonista. Qui, è un giovane Jesse Eisenberg a farsi portavoce di un regista che si racconta ancora una volta, con i suoi ottantasei anni che non dimostra, almeno cinematograficamente, anzi migliorandosi regalandoci il primo film girato in digitale, incorniciando i protagonisti in quella fotografia impreziosita da Vittorio Storaro, sin dalla prima inquadratura, tra le architettoniche luci dello star system di una mecca del cinema nella sfavillante epoca d'oro degli anni trenta. Eccolo ancora lui, terzogenito di una famiglia ebrea del bronx, umile orologiaio che aspira a qualcosa di meglio della vita di bottega del padre, con un fratello (Ben, interpretato da Corey Stoll) famigerato che non riesce a districarsi dalla malavita che ha deciso di abbracciare sin da adolescente, e una sorella sposata a un filosofo metodista che non conosce tentazioni se non la devozione prosaica verso la moglie. Inizia così un viaggio verso le proprie aspirazioni artistiche, annacquate da una “latitanza” che cerca disperatamente di staccarsi da dosso, forse per colpa di una famiglia che non vuole credere alla determinazione di chi cerca solamente di risolvere la propria esistenza cercando di migliorarla con un lavoro un po' troppo sopra le righe. Troverà lo zio Phil (interpretato da Steve Carell), indaffarato e famoso agente di Hollywood, tra autori e attori che non riusciranno a distoglierlo da quel primo incontro con la segretaria Vonnie (una ritrovata Kristen Stewart), inconsapevole di un destino che si perderà nelle decisioni problematiche dei protagonisti. La giovane venticinquenne, amante dello zio, che si lascia andare tra le braccia dell'ingenuo nipote, per poi decidere di sposare il primo, mentre il giovane senza speranze trova moglie (Veronica, interpretata da Blake Lively), senza dimenticare il volto di quel grande amore. Il risultato della formula è sempre lo stesso, ovvero l'impossibilità di conciliare ragione e sentimento, dovendo adottare la soluzione più infelice per continuare a vivere una vita che ci ha offerto il meglio, ma che può sempre ritornare, regalandoci un sorriso che si abbandona alla speranza di chi non vuole rinunciare a credere ai propri sogni. Per noi comuni mortali, non ci resta che ringraziare ancora una volta Woody Allen per una ennesima pagina di cinema che merita di essere ricordata, come i meriti di un Radio Days che ci trasporta nella malinconia di chi ha vissuto gli anni di un cambiamento che rimarrà incancellabile, come ogni generazione che si ricicla nei decenni che scrivono la storia della nostra vita.

Paolo Arfelli Vannucci

sabato 17 settembre 2022

Possiamo evitare l’iceberg di NETFLIX, dal recente passato di BLOCKBUSTER?

L'ICEBERG NETFLIX
Il colosso dello streaming riversa la sua minaccia alla futura programmazione delle sale cinematografiche

Nonostante l’ottimismo riversato sulla ripresa di un cinema affidato a una pandemia combattuta in una battaglia dove solo oggi sembra possiamo lasciarcela alle spalle, i dati parlano chiaro. Nel 2016 Netflix si è affermata come leader incontrastato del mercato con 93, 8 milioni di abbonati, raddoppiandoli in soli quattro anni, “ringraziando” l’incombenza del Covid e l’affermazione di rivali (Amazon Prime e Disney +) che hanno costretto il rafforzamento di una produzione affidata alla creazione di contenuti originali (tralasciando l’escalation del conflitto ucraino che ha visto la sospensione del servizio in Russia e una richiesta di risarcimento, da parte degli utenti, di 60 milioni di rubli). Nascono così nuove serie inedite nei battesimi rilasciati dai sodalizi tra la Marvel Television e la Millarworld, nei personaggi che hanno rilanciato il proprio interesse nel cammino delle proprie stagioni programmate, da Daredevil e lo stesso Punisher (in produzione), incrementando un palinsesto creativo nell’acquisizione di nuovi personaggi affidati alla Extreme Studios di Rob Liefeld, ampliando una espansione internazionale che ha “baciato” la nostra patria nei proseliti stessi di Suburra, accostata alla serie francese Marseille con Gérard Depardieu. Tutto questo preambolo si riallaccia alla scintilla innescata già nel 2014, con la messa in cantiere di produzioni cinematografiche che hanno visto la stessa recente incursione alla 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con il film Blonde, prodotto dalla Plan B Entertainment di Brad Pitt e diretto da un garante Andrew Dominik, meno fortunato nell’accoglienza di una critica che non ha gradito l’incursione personale dello stesso regista sul mito dell’attrice Marilyn Monroe (Ana de Armas). La forte affermazione e la stessa presenza scenica di un De Niro, Joe Pesci e Al Pacino in The Irishman di Martin Scorsese, in aggiunta alla consacrazione cinematografica delle stesse serie televisive nate nella Image Comics, nel film The Old Guard di Gina Prince-Bythewood con Charlize Theron, riescono a destabilizzare le sorti di una tradizionale programmazione in sala, così caparbiamente difesa e sostenuta in Italia, ma dagli esiti incerti nei voleri di una Netflix che sembra ignorare la stessa sorte toccata al mercato dell’Home Video nell’inabissamento del titanico Blockbuster, avvenuto nel 2012. Quello che rimane, non è solo la consapevolezza di un futuro drastico e segnato da un destino certo nella quasi ovvia soppressione dei multisala odierni, ma l’obsoleta ambizione riposta nel fine lucroso che può di certo rallentare le pretese della stessa società statunitense se si rende conto di quel “danno” che rimane, oggi più che mai, una minaccia alla tradizione voluta dal cinema così come è nato.

Produzioni cinematografiche Netflix, sino a oggi:

Red Notice, Don't Look Up, Bird Box, The Adam Project, Tyler Rake (Extraction), The Unforgivable, The Irishman, The Kissing Booth, 6 Underground, Spenser Confidential, Enola Holmes, Army of the Dead, The Old Guard, Blonde.

Paolo Arfelli Vannucci

giovedì 15 settembre 2022

Cameron riapre il vaso di Pandora!

CAMERON RIAPRE IL VASO DI PANDORA
Il 22 Settembre torna nelle sale l'avveniristica epopea Na’Vi, in attesa del secondo capitolo in uscita per le strenne natalizie


Quando Cameron ha alzato la statuetta gridando
Sono il padrone del mondo, alla celebrazione degli Oscar di qualche decennio fa, nessuno poteva sospettare che aveva già in mente un progetto (le prime ottanta pagine le aveva scritte quattro anni prima) ancora più sofisticato di quel popò di assaggio che aveva contraddistinto il suo naufragio condito di computer grafica che poteva conciliare dramma amoroso e suspense “manovrata ad arte”, tra riprese in immersione che hanno innalzato una passione del regista che è diventata puro cult hollywoodiano, visto gli albori di una tecnica altamente espressa nel primo Abyss, dove una incredula Mastrantonio poteva ammirare una creatura d’acqua materializzarsi nei prodigi di una neonata animazione in digitale, implosa in quell’epilogo che ha deliziato il palato di ogni intenditore, apostrofando un lasso di tempo che non ha minimamente scalfito le doti di un regista che ha voluto superare se stesso, unendo tradizione e tecnologia al passo coi tempi (ha appositamente inventato una macchina da presa per le prodezze virtuali), freneticamente coinvolti in quel vortice di gioco virtuale che oggi rappresenta il nuovo cinema in 3D. Il risultato è Avatar, una favola moderna che riscopre la tradizione della mitologia greca reinterpretata dal regista (in veste di sceneggiatore e coproduttore insieme a Jon Landau), dove il destino riversato nel conflitto amoroso rappresentato dalla bellezza indigena di una Na’Vi (la razza aliena che popola il pianeta Pandora), nelle sensuali forme di una rielaborata Zoë Saldaña (la combattiva Neytiri), risolleva le sorti affidate al soldato terrestre Jake Sully (l’attore Sam Warthington), invalidato su una sedia a rotelle, con il compito di entrare nel corpo di un nativo del popolo “blu”, un ibrido creato geneticamente in laboratorio per poter controllare (secondo il volere di una potente compagnia extraspaziale che trivella pianeti in cerca dell’Unobtainium) i dissensi che una tale azione può (a ragione, visto gli echi ambientalisti contemporanei) scatenare. Tutto questo grazie alla tecnologia sfruttata da una interfaccia mentale (realmente usata per i controlli delle tecnologie a distanza) che permette di collegare empaticamente le onde celebrali di due entità; il buon Jake comodamente sdraiato “in coma”, sotto le direttive di una ritrovata e adeguatissima Sigourney Weaver (la dottoressa Grace Augustine, per non dimenticarci di Ripley nel suo Aliens-Scontro finale) e il suo alter ego Avatar, impegnato a guidare i nativi del pianeta verso quella dissuasione che lo porterà inevitabilmente (per amore di Neytiri) a debellare un conflitto etico riscoperto da quella nuova natura che ha definitivamente assorbito. Una sorta di Dune rielaborato per le moderne generazioni cresciute a PS3 (il gioco ufficiale del film è distribuito dalla Ubisoft), dove le abilità recitative vengono ampliate da un inebriante e sfarzoso vortice di pixel che non fanno rimpiangere i “preistorici” occhialini di cartoncino rossi-blu di vent’anni fa (a scapito di uno Squalo 3 in 3D) che oggi ci fanno ingenuamente sorridere di nostalgia. Per placare le rivendicazioni del predecessore Titanic, la colonna sonora riaffidata a James Horner, che regala una ritrovata hit nelle romantiche note di I See You cantate da Leona Lewis. Bentornati sul pianeta Pandora!

Paolo Arfelli Vannucci

martedì 13 settembre 2022

“Sir” Ridley Scott è l’ultima leggenda di Sherwood!

Sir Ridley Scott è l’ultima leggenda di Sherwood!

Ridley Scott torna a dirigere Russell Crowe, in una inedita versione del mito dell’arciere, nobile−fuorilegge, Robin Hood

Presentato  nel 2010 all’apertura della 63˚ edizione del Festival di Cannes, il film del regista che ha riscritto la leggenda del più amato fuorilegge della letteratura inglese.

Dissacratorio. Storico. Capolavoro. Mettere le mani sopra una storia antica e rivisitata come la stessa tradizione ha saputo insegnare, può sembrare impresa difficile nella propria ripetitività degli eventi, soprattutto quando le leggende hanno sempre avuto il primato di essere feticci popolari, custoditi e dispensati con doverosa credibilità di stile. Sicuramente Ridley Scott ha potuto fare, della propria capacità di cineasta, buon uso, riadattando le atmosfere di una storia anglosassone che è sempre stata un tutt’uno con una cultura che appartiene all’emisfero emotivo di tutti. Robin Hood, fuorilegge, nobile e dalla parte del popolo oppresso dalle tasse imposte dal reietto principe Giovanni. Questa è sempre stata la versione “decantata” dalla storia del “borgo” chiamato cinema. Lo abbiamo visto romantico amante in ristretta calzamaglia e divertita volpe nell’immaginario disneyano, ma solo oggi possiamo rivalutare i pregi e i difetti di ogni versione che ha sempre raccontato la stessa storia di umili briganti con nobili intenti. Kevin Costner è stato il primo a debellare l’icona strettamente legata al mito, con l’intrusione di un moresco Morgan Freeman al servizio di un ribelle inglese, sconcertando un pubblico ancora legato ad un immaginario più fiabesco che medioevale. Eppure la storia si svolge tra il XII˚ e il XIII˚ secolo, e la crudezza di tempi tanto oscuri non può non intimorire, quindi il regista Scott ha saputo aggiungere il proprio tocco, distaccando l’uomo dalla leggenda, in quel Sir Robin Longstride, soldato e arciere a servizio di Re Riccardo (o Loxley?), che muore per mano di un cuoco, in una pausa di frecce scoccate e arieti spronati dal buon Little John e lo stesso Robin, che guida un grappolo di compagni di battaglia: un inedito e sprovveduto Jimmy, un cantastorie Alan e (per fortuna!) il ritrovato Will Scarlet. Tutto sembra preambolo ad una storia completamente reinventata ma uguale all’originale (di cosa?), ricercando credibilità a personaggi che sono stati rielaborati per l’occasione, con il sapore autentico della verità nascosta da una storia anacronistica fatta di realtà e non di leggende. Scopriamo il vero Robert Loxley morente, che obbliga un servile Robin a consegnare la propria spada al padre Walter (Max von Sydow), come ultimo gesto e promessa d’onore. Così si uniscono due mondi apparentemente distinti ma legati dallo stesso passato (lo stesso Walter conosceva il padre di Robin, decapitato sotto gli occhi di un bambino che subisce il primo trauma dei ricordi), riscoprendo una Marian (sempre virginale Cate Blanchette), moglie e quindi vedova di Robert, che accetta di conoscere Robin e di accoglierlo come il marito reale. Tutto può sembrare ancora accettabile, come la stessa incoronazione del principe Giovanni (ottimo Oscar Isaac) per mano della madre, volubile e crudele nell’imporre delle nuove imposte, sollevando il vecchio consigliere di Re Riccardo (un posatissimo e indimenticabile William Hurt che regge tutto l’equilibrio della storia), per cedere il posto al Maresciallo, vero artefice dei saccheggi (e pure della morte di Robert Loxley) ai danni del popolo e fautore di una alleanza con i franchi, all’insaputa dello stesso Giovanni. Diventa così obsoleta la stessa figura dello sceriffo di Nottingham, inizialmente il protagonista della storia che doveva interpretare Russell Crowe, affidando a Christian Bale il ruolo di Robin Hood, sconvolgendo nuovamente ogni buonsenso di logica, come lo stesso regista ha ammesso, prediligendo, tra tutte le versioni cinematografiche girate, la versione di Mel Brooks. Le buone intenzioni del Re Giovanni, promettendo libertà al popolo inglese guidando le proprie armate e i nobili contro l’attacco dei Franchi, sfumano quando viene allo scoperto la vera identità di Robin/Robert, decretando la propria sovranità ai danni del popolo, ferito nella buona fede, e bandendo come fuorilegge l’uomo che diventa fautore della propria leggenda.

Complimenti e... lunga vita a “Sir” Ridley Scott!

Paolo Arfelli Vannucci


Quando di virtù è cinema virtuale

 

Quando di virtù è cinema virtuale

L'evoluzione in digitale nella sublime rappresentazione del cinema epico di culto

C'era una volta quella piccola scatola di luci e ombre, riflessi di giochi di specchi, intrattenitore di un pubblico entusiasta di un simile "mirabolante ed eccentrico" risultato; il cinema. Lo stesso pubblico che oggi, con il medesimo movente intrattenitore, giace sulle comode poltrone di multisala ipertecnologici, tra sistemi dolby sempre più "high fidelity" e leccornie consumate tra un sorriso e un bacio, oppure ovattato nelle comode mura domestiche, con home-theatre che hanno visto decadere i "Super 8" e i "VHS", precursori della nuova era tecnologica nella coppia "DVD-Blu Ray ". C'era una volta ciò che oggi è sempre di più il cinema dei sogni, dove i fili manovrati da quel cineasta mangiafuoco hanno sempre abilmente dispensato l'abile illusione di un trucco effimero nel medesimo risultato. La spettacolarità di un cinema che ha sempre voluto stupire, ammaliare, nei binomi tra regista e alter-ego già dai tempi di "de Mille e Charlton Heston", dove l'epopea storico-religiosa era ancora parte di una coscienza morale che sapeva ancora di buono, dove le acque del mar rosso hanno saputo incantare come quella memorabile corsa delle bighe in Ben Hur, diventata tributo nel contemporaneo Il gladiatore, con un Russell Crowe degno di stima per un simile azzardato raccostamento. Lame rotanti forse un tantino più inquietanti di una stucchevole disputa amorosa nel Grease dei fasti musical anni settanta, ma sicuramente sempre convincenti e degne di tanta amorevole dedizione. Poi è arrivata la svolta fantasy-fantascientifica firmata Ridley Scott, che con le dispute di Alien e Ripley ha saputo suggellare l'immortale saga devota al cinema di culto, fatto di cultura, elogio dell'arte sublimata da ogni piccolo dettaglio artistico-umorale, psicologico, sia nei dialoghi che nelle movenze caratteriali dei personaggi stessi. Risvolti che ha saputo riproporre nell'enorme tributo siglato Legend, favola eterna dai risvolti etereamente epici, di nenie tramandate nelle voci secolari di avi attempati dediti a soddisfare la fantasia dei pargoli incantati da tanta soave saggezza narrata. Stessa trionfale sorte è stata impartita dal titanico Peter Jackson, distillando sapientemente dedizione, devozione e stupore digitale nei capolavori della saga del Signore degli Anelli di Tolkien, per convergere nel remake più suggestivo che abbia potuto girare nel colossale King Kong, o meglio il suo King Kong, unico e originale, fedele in ogni dettaglio a ciò che la stop-motion ha saputo imprimere nella fantasia di un bambino che sarebbe diventato il regista che è oggi, lo Spielberg per gli adulti devoti a un cinema meno favolistico e surrogato di un cliché capace più di intimorire che di commuovere.

Lo stesso effimero terrore impresso nel Troy di Wolfgang Petersen, glorioso nella sua ricercata atavica lotta di divinità belle e dannate, di omeriche narrazioni trasposte in un cinema americano che sa condire di machismo d'esportazione ogni tentativo di ricongiungersi con una cultura gelosissima delle proprie sudate radici.

Accostabile e più cruenta è l'opera di Zack Snyder, quel 300 nato principalmente per rimanere in sospeso tra un prodotto commerciale da play-station e "per sempre fedele" al fumetto di culto da cui prende origine; un'orgia di graphic novel nate per soddisfare le ansie e i bisogni adolescenziali che devono maturare nel culto critico di chi riesce a consacrarlo. Gimenez aveva saputo raccontare la sua Città, in ciò che Matrix è l'essenza più devota al dogma istituzionale, dove le turbe erotiche e violente di Sin City sono solo eccessi necessari per mantenere viva la tradizione del fumetto di culto.

Lo stesso culto che Coppola ha saputo impartire nel suo Dracula, esempio lampante di come la sofisticata semplicità di un soggetto possa essere rappresentata nella sua integrale essenza di romanzo.

Elizabeth: the golden age, dell'indiano Shekhar Kapur, arriva sugli schermi come apice di questa sudata tradizione di cinema fatto di mestiere e qualità, dove l'enfasi dell'impatto visivo non deve distogliere lo spettatore da ciò che la tecnologia deve solo migliorare per qualità narrativa e non per avidità di consumo. Tradizione, storia e romanzo diventano quindi i soli ingredienti capaci di rimanere gli unici indispensabili per destare fascino e originalità creativa. Cate Blanchett regala la sua interpretazione alla scelta stessa del suo personaggio, reduce dai fasti in costume elfico, diventando l'emblema stesso di quella tradizione vittoriana che era già stata anticipata nell'Orlando di Sally Potter, con una androgina Tilda Swinton capace di destare angosce sentimentali senza tempo e confine. Oggi non rimane che aspettare la rivisitazione dell'opera migliore del tedesco Fritz Lang, quel Metropolis del 1926 che viene riproposto sempre in versione restaurata, sotto le mani di ogni cultore della settima arte che rimane estasiato da tanta abilità visiva degna solo di essere ammirata.

Tutto questo è cinema!

Paolo Arfelli Vannucci

domenica 11 settembre 2022

Apocalittici d'autore

APOCALITTICI D'AUTORE

L'evoluzione fantasy attraverso i registi più "profetici" del cinema: Lang, Scott e Kazuaki

Un viaggio onirico nel cinema fanta-drammatico di culto

Se facciamo testo basandoci sullo stesso movimento letterario nato negli anni che hanno preceduto il secondo conflitto bellico, a cui hanno aderito poeti come Fraser, Treece o Findly, dove il rifiuto dei canoni poetici tradizionali poteva essere l'unico nutrimento per animi straziati dagli stessi eventi che richiamavano bibliche visioni sull'epilogo dell'umanità, quello che il cinema ha saputo completare nel proprio contributo fatto di arte visiva e sonora ha indiscutibilmente definito, nei massimi espressivi, ciò che d'apocalittico continuerà a perseverare nell'eternità, claustrofobica, distruttiva, di speranza e rinascita, non solo metaforica o di pura finzione cinematografica. Quella rinascita che ha da sempre ispirato ogni cineasta responsabile di un prodotto che, per soggetto e valenza, rimane la testimonianza concreta di un livello qualitativo destinato ad etichettare non solo un genere cinematografico, ma di riuscire a migliorare quella ricerca continua di stile e buongusto che ha fatto grande il cinema fantastico. Lo stesso livello qualitativo che ha consacrato, per primo, il genio di Fritz Lang, nel suo indiscusso capolavoro di rara abilità visiva del 1926, Metropolis, capostipite di quella scuola espressionista di un cinema che ha saputo reinventare tradizione e innovazione come filtro di un'epoca ancora assopita da quei canoni conservatori, immutati per generazioni sino ai nostri giorni, e pur sempre garanti di quella qualità rigenerativa riversata su quelle tecniche cinematografiche che riescono a stupire nell'imbarazzante paradosso temporale, per immutata innovazione riflessa. Ispirato dalla stessa emozione legata allo squarcio d'orizzonte newyorchese suscitata al regista, Metropolis diventa un autentico crogiolo di riferimenti, non solo puramente biblici (vedi "La Torre di Babele" come apice di quel conflitto sociale riversato sulla rudimentale lotta di classe tra potere e schiavismo), ma testimonianza indiretta di un'epoca realmente toccata da disastri ambientali strettamente connessi al progresso vissuto del periodo. Elementi come il pericolo energetico, il disastro ambientale, un progresso tecnologico sempre meno primordiale di come sia stato egregiamente rappresentato, hanno saputo non solo dare merito all'autentico romanzo di Thea von Harbou, ma hanno definito quel legame di cinema drammatico caratterizzato dagli elementi narrativi espressi. Quel progresso tecnologico futurista nella stessa creazione di una donna androide, simbolo perfetto dell'avidità dell'uomo, dell'eccesso desiderio estremizzato sino all'autodistruzione, miscelando sofisticatamente il fine spirituale e il bene materiale. Lo stesso dualismo che ha innalzato il sentimento d'amore e possessione, nella diversità intrinseca allo stesso, nell'ossessione di Deckard-Harrison Ford nel Blade Runner di Ridley Scott. Mezzo secolo di innovazione cinematografica, per passare dal metodo Schufftan del film di Lang alle moderne riprese in computer grafica che hanno introdotto l'universo futurista dello stesso George Lucas nella sua trilogia ripresa in due parti, la più colossale della storia del cinema, in Guerre Stellari. La stessa città introdotta da quella panoramica aerea sulle ali delle note di Vangelis, nel caos urbano intriso di mercanti del sesso e paure legate all'eterna caccia tra uomo e donna, legge e trasgressione, vita e morte. Lo stesso dolore incarnato dal glaciale volto di Roy-Rutger Hauer, leader e padrone di quel mondo segreto capace di destare compassionevoli sentimenti di umanità e disprezzo verso la stessa commiserazione.

La fragilità in quella diversità sostenuta da Rachel-Sean Young, nel bisogno di riscoprire se stessa, per conoscere la vera origine della sua esistenza, combattuta dai ricordi e dalla paura di non essere viva, concreta e infine consapevole.

Quell'atto finale di esasperazione che ha consacrato l'ultimo capolavoro di Kiriya Kazuaki, Kyashan. Nato come originale serie televisiva d'animazione nipponica dei primi anni settanta, nella stessa gestazione dello studio Tatsunoko che ha dato i natali ad altre serie di analogo consumo (vedi Hurrikane Polimar), Casshern (il titolo originale della saga) riprende egregiamente i toni cupi e strazianti dei suoi due illustri predecessori sopracitati, miscelando, con devozione ad un pubblico più maturo e consapevole di un genere, angosce e conflitti etnici riversati nella visionaria e distruttiva ovazione bellica.

Il conflitto edipico padre-figlio, già rivalutato da Fritz Lang, la trasformazione uomo-androide, la ricerca estenuante di quell'ideale perseguitato sino all'estremo riscatto, diventano gli unici elementi capaci di consacrare un genere non solo cinematografico, ma di autentico valore letterario. Come conclude Roy, nel suo tragico epitaffio: "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser, e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”.   

Paolo Arfelli Vannucci

giovedì 8 settembre 2022

Bandito di Cuori: Jesse James rivive nel mito di Brad Pitt

BRAD PITT: BANDITO DI CUORI

Il mito della frontiera americana, vissuta dai fuorilegge più famigerati del cinema

Retrospettiva dei film western che hanno raccontato un genere cinematografico

 Di Brad Pitt si può dire di tutto, fuorché un "ragazzone" (cinquantottenne, classe '64) per nulla coerente alla propria immagine di attore, nei ruoli che interpreta, fedelmente legato alla sua natura di solido ragazzo dell'Oklahoma, paese natale che lo ha consacrato nel più ecologista film di "Rob" Redford, quel In mezzo scorre il fiume, diretto nel '92, in coppia con Craig Sheffer, il più autobiografico dell'attore, visto che lo stesso Pitt si è laureato all'Università del Missouri, in giornalismo.

Per un attore che ha esordito, nel suo curriculum di prestigio (antecedente e non, visto che il suo debutto cinematografico è stato un quasi anonimo Cutting Class, diretto nel 1989 da Rospo Pallenberg), interpretando quella canaglia scavezzacollo voluta da Ridley Scott nel suo (ammettiamolo) scialbo Thelma e Louise, impegnato a sedurre e derubare una ingenua Geena Davis in piena crisi coniugale, vestire oggi i panni del bandito più cult del west americano diventa il completamento di una carriera che lo vede come un autentico divo-camaleonte, primo in assoluto per carisma e originale protagonismo.

Come lo stesso Redford, padre "cinematografico" putativo dell'attore, vestire i panni dell'antieroe poteva non essere scelta meno scontata, visto che le canaglie, nel mondo di Hollywood, sanno sempre garantirsi i favori di tutti. Butch Cassidy è stato impalmato in coppia con un Paul Newman quasi nel finire dell'epoca d'oro del genere western (era il sessantanove), riproponendo regista, coppia e stile nel successivo La Stangata, sempre di George Roy Hill, del settantatrè. Le atmosfere ovattate nel bianco e nero di Fred Zinnemann nel suo celebre Mezzogiorno di fuoco (1952), hanno, quindi, devoluto stile e forma nel più diretto Wyatt Earp, immortalato a più riprese nell'omonimo film diretto da Lawrence Kasdan e il recentissimo Tombstone di Cosmatos, tra i virtuosismi interpretativi di Costner e Russell. Eroi ambigui che fanno del dolore virtù, sofferti nel loro radicato essere uomini di frontiera, poche parole e colt nel cinturone ciondolante, "Robin Hood" rivisitati d'importazione, chiusi in quel crogiolo di aspra polvere che è sempre stato il mito del selvaggio west.

Personalità intrecciate di risvolti contraddittori, dove il tradimento rimane l'assoluzione per colui che infligge l'estremo rito finale, come nella tradizione di un Billy the Kid e il suo più diretto Pat Garrett, ripreso nelle nevrotiche complessità di un Bob Dylan d'autore nel film omonimo di Sam Peckinpah e nel recentissimo Young guns di Cristopher Cain, con un quasi isterico Estevez rivestire le complessità caratteriali di una canaglia forse più claudicante-adolescenziale del suo stesso mito.

Oggi, Andrew Dominik, con la produzione firmata dallo stesso Pitt e un garante Ridley Scott, ha regalato non un film, ma il film di Jesse James, capolavoro assoluto di un rinnovato neorealismo che ha voluto immortalare non solo un genere, ma una capacità narrativa salda ai temi fedeli al culto romanzato, a quel sottile equilibrio tra realtà e finzione, egregiamente espressa nello stesso prologo, nell'immagine stanca di un "Tom" Howard calato nei suoi ricordi, lo stesso feeling impresso nel vampiro di Neil Jordan, pregi e difetti di una vita passata combattendo i propri demoni interiori, per scavare nell'animo di un fuorilegge stimato e temuto, che ripercorre, nei suoi trentaquattro anni, le paure e i pregi di una personalità forte e a tratti ambigua. Quella personalità che insegue il giovanissimo Robert Ford (Casey Afflek, già reduce dall' Oscar di Damon nel suo Good Will hunting, in coppia col fratello Ben), il cardine umanamente vulnerabile di chi vive inseguendo un sogno, un mito che diventa protagonismo (il dialogo straordinario di Casey con Sam Shepard, che riveste il ruolo del fratello Frank James), dove la codardia diventa la negazione di un destino segnato da un fato costruito dalla stessa determinazione ("non l'ho ucciso io, è stato un incidente"). Un film che diventa corale nei caratteri duri e umani di chi ha circondato la sua stessa vita, dal cugino di Jesse, Wood Hite (Jeremy Renner), che muore per mano dello stesso Robert, in quella caotica lite nel monito del "non desiderare la donna d'altri". Tutto è autentico come la polvere da sparo e gli abiti sdruciti, i visi smunti e consumati dai troppi segreti celati nel freddo e dalla paura, caratteri che assorbono quasi una narrativa rigorosamente dickensiana nel risvolto giovanile di chi cresce nell'ombra di un successo pericoloso, che ha potuto attingere nello stesso Peter Weir, nell'introversa potenzialità di Anderson canzonato in camera dai suoi stessi compagni nell'Attimo fuggente, come lo stesso Robert che custodisce con cura e devozione i libri e i romanzi di Jesse, mentre vive, parallelamente, le gesta in prima persona. La rapina al treno è un gioiello di crudo realismo, dove i volti incappucciati e bendati fanno tremare come i colpi delle colt, pesanti e aspre come gli stessi grilletti ritratti dalle dita nervose di uomini capaci realmente di uccidere. La fiducia e il tradimento sono, quindi, pericolosi sentimenti come la stessa capacità di saperli dominare, con la stessa freddezza con cui Jesse, di fronte a Rob, taglia le teste ai suoi serpenti con una lama di coltello. Dominik dirige impeccabilmente ogni sequenza, scandita dalle atmosfere musicate da Nick Cave e Warren Ellis, dense e ritratte come gli sguardi attraverso i vetri, di occhi arrossati dal dolore di una narrazione appesantita e offuscata da una realtà fatta anche di lacrime.

Jesse James muore, quindi, per rivivere nelle ottocento rappresentazioni portate in scena dallo stesso Robert Ford e il fratello Charley (Sam Rockwell), ironico nella ripetitività con cui il dolore diventa mito, per essere poi un conto da pareggiare con la stessa morte di un codardo che è solo, in sostanza, la nostra paura di non riuscire a vivere una vita nell' autentica grandezza che solo i "Grandi Uomini" sanno costruire. Un film capolavoro, il cinema che tutti aspettavamo: L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford.

Paolo Arfelli Vannucci

“Indovina chi viene a cena? SOUL MAN”

 

Indovina chi viene a cena? SOUL MAN

La morale di un cinema antirazzista a confronto, nel valore riproposto da Steve Miner

Se la morale della società dovesse essere misurata con l’identificazione di un dialogo recitativo che ha l’unico scopo di abbattere ogni barriera razziale determinata dalla pelle, dalla religione e dalla cultura, non ci sono dubbi su quello che nel film di Stanley Kramer viene innalzato in assoluto come principio di massa. Considerando l’epoca in cui è stato girato, alla fine degli anni sessanta, la società iniziava già a risentire di quello che lo stereotipo della diversità non rappresentava più la vergogna di una ostentazione, ma il bisogno di essere sempre più emancipati nei confronti di una verità, di una convivenza libera nel rapporto di una società che negli sbagli del passato ha sempre saputo trarre giovamento. Non è stata l’America puritana a voler affermare lo spirito integro di un messaggio morale, ma la consapevolezza data dall’intelligenza che è capace di stabilire il valore degli uomini, a prescindere dalla loro diversa pigmentazione. La stessa parola usata da Spencer Tracy, in quel monologo finale capace di sciogliere i cuori di ogni ostinato moralista, nella evidente e sincera commozione di Katharine Hepburn, in quel trasporto deliziato dal compassionevole coinvolgimento dei protagonisti.

L’amore ostinato di due persone capaci di essere se stesse, fondendo quelle individualità che rimangono radicate nel dogma stesso della propria diversità. Non esistono frasi di circostanza. Non servono più scrupoli forgiati nell’intolleranza, figlia di quella paura nello scoprire se stessi.

Sidney Poitier e Cecile Kellaway sono stati i primi testimoni di quella affermazione, che nella commedia ha avuto il merito di essere grande cinema.

Dopo circa vent’anni, Steve Miner ha avuto il delicato compito di riproporre quel dialogo, accostando un linguaggio cinematografico che è diventato l’emblema stesso di quella generazione X, delineata dai caratteri giovanili che hanno affermato la nuova Hollywood.

C. Thomas Howell e Rae Dawn Chong, hanno rappresentato quel passaggio di testimone, in uno spessore di ruoli lasciati alla modernità di uno stile interpretativo che ha delineato indubbiamente la commedia americana degli anni ottanta.

Un’impostazione di ruoli sicuramente meno drammatica, ma ugualmente definita nella sua morale e nei tempi di recitazione. Soul Man ha avuto indubbiamente questa grande qualità, nel coinvolgere l’etica nell’unica intenzione di annullare ogni preconcetto ormai senza nessuna importanza.

Un uomo che conosce se stesso, vivendo la condizione della stessa diversità.

Indubbiamente, l’America ha da sempre avuto il primato di saper rappresentare quel conflitto razziale, nato da quella stessa convivenza che nel crogiolo di razze ha saputo attingere la stessa patria della cinematografia mondiale. Quell’America che ha visito nascere l’affermazione di tanti attori di colore, che hanno annullato il pregiudizio con la propria indiscussa capacità artistica, e che noi oggi abbiamo il privilegio di elogiare.


Ti presento i miei genitori


Non ci sono esitazioni nel ritenere lo stereotipo del conflitto razziale, una delle più profonde e autentiche fonti da cui trarre ogni tipo di “denuncia sociale”, dall’arte espressa nella cinematografia e da ogni estremo ad essa associata. Se dai tempi nostalgici di “Via col Vento”, l’eloquenza verbale si poneva all’infinito, facendo diventare fin troppo caricaturale la subordinazione afroamericana, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, per la fortuna di tutti noi, come riconoscimento nel diritto stesso determinato dalla crescita di una società che vuole essere fiera di ciò che ha dovuto costruire, nel complesso cammino fatto di sbagli e di conquiste.

Per fortuna, dopo circa un lustro di “moderna civilizzazione”, sappiamo distinguere l’ipocrisia commerciale di ciò che facilmente rimane prodotto o pura sostanza. Questo non vuole assolutamente dire di essere criticamente inflessibili su quello che ci viene offerto come mezzo di paragone, ma indiscutibilmente siamo dipendenti e fragilmente influenzabili da tutto ciò che passa come fenomeno di costume, in una società sempre più modernizzata al limite della tecnologia, estremizzando in ogni maniera possibile quella barriera che nessuno vuole riconoscere più.

I sentimenti diventano, in assoluto, quella scintilla capace di innalzare ogni ostinata battaglia morale, dove la quotidianità diventa la diretta conseguenza di quella denuncia fatta di comune emancipazione, nelle scelte di vita e, principalmente, con chi viverla.

Il colore della pelle diventa inevitabilmente di poca importanza, là dove il pregiudizio diventa essenzialmente un principio morale e nulla di più, dove ogni uomo ha da sempre convissuto con la ferma convinzione di essere uomo come tutti, dove l’intolleranza è solo il proprio senso del ridicolo radicato nella poca intelligenza.

Soul Man e Indovina chi viene a cena? rimangono quindi due piccoli capolavori nati dallo stesso principio, non come vittimistica denuncia, ma come ferma e riuscita determinazione nel lasciarci alle spalle gli stessi grotteschi preconcetti che hanno solo danneggiato il buonsenso di una società che ci vuole sempre più bene. A prescindere dal colore della pelle.

Paolo Arfelli Vannucci