mercoledì 5 ottobre 2022

La leggenda del cavallino rampante rivive sul grande schermo nel biopic diretto da Michael Mann

 

ADAM DRIVER È ENZO FERRARI

Adam Driver nel ruolo del “Drake”, nell’ultima celebrazione di un mito dell’automobilismo italiano

Non poteva non “toccare” a uno dei simboli più importanti di quella cultura automobilistica italiana invidiata da tutto il mondo. Nell’uomo che ha creato un marchio e un impero capaci di innalzare lo stile e il design di un Paese costruito sulle ceneri di un dopoguerra che ha tracciato le vite di chi ha combattuto tra la stessa vita e la morte. Proprio come lo stesso Enzo Ferrari, riscattando la propria sorte uscendone illeso, tra quegli “incurabili” che lo hanno visto vincitore di quella pleurite che non lo ha debilitato nello spirito di chi ha conosciuto il dolore della perdita, negli affetti più importanti, dal padre e lo stesso fratello Alfredo,

«Era l'inverno 1918-1919, rigidissimo, lo ricordo con grande pena. Mi ritrovai per strada, i vestiti mi si gelavano addosso. Attraversando il Parco del Valentino, dopo aver spazzato la neve con la mano, mi lasciai cadere su una panchina. Ero solo, mio padre e mio fratello non c'erano più. Lo sconforto mi vinse e piansi.»

Una vita costruita dalla determinazione di un uomo, di un pilota, di un costruttore che ha impreziosito la vita di tutti coloro che hanno viaggiato insieme a lui, correndo su quelle macchine che hanno guidato i grandi nomi dell’automobilismo su pista, da Ascari a Lauda, da Scheckter a Villeneuve,

«Quando nel 1951 González su Ferrari, per la prima volta nella storia dei nostri confronti diretti, si lasciò alle spalle la "159" e l'intera squadra dell'Alfa, io piansi di gioia, ma mescolai alle lacrime di entusiasmo anche lacrime di dolore, perché quel giorno pensai: "Io ho ucciso mia madre".»

Il regista Michael Mann oggi ha raccolto il testimone di chi ha voluto raccontare la sua vita, in quei documentari “nostrani” che possono ripercorrere le aspirazioni di un vincitore, passando dall’esperienza di un regista che ha già raccontato un grande cinema con stile, da Insider a L’ultimo dei Mohicani, Alì, Miami Vice e Nemico Pubblico, forse spingendosi oltre nella scelta di quegli attori che potevano impersonare il nome del suo mito, da quella scelta ricaduta inizialmente su Hugh Jackman, per arrivare a un Adam Driver forse debilitante in quella fisicità così distante dall’Enzo Ferrari che tutti hanno sempre conosciuto e identificato. Nel 2003 il regista Carlo Carlei ha diretto uno scaltro Sergio Castellito in una miniserie televisiva che ha corso con i colori di una produzione meno spettacolare di quel girato proposto da Ron Howard in Rush, offrendo una delle pagine più strettamente legate alla celebrazione di una Formula 1 che ha visto protagonista la sfida di Niki Lauda e James Hunt, in quell’incidente che ha superbamente ricostruito un regista capace di dare valore alla storia celebrata dai suoi stessi protagonisti. La stessa storia che ha vissuto Enzo Ferrari sulla propria pelle e che ha saputo trasmettere nei valori di chi ha sempre messo le automobili al disopra di tutto. Anche della sua stessa vita, rischiando di perdere tutto. Ma i grandi nomi sanno di arrivare sempre più in alto, senza paura. Sempre.

Paolo Arfelli Vannucci

lunedì 3 ottobre 2022

I Temi della Solidarietà e dell’Inclusione nel Cortometraggio scritto da Roberta Palmieri e vincitore di “Una storia per Emergency”

CAPITAN DIDIER

M
argherita Ferri dirige la piccola favola costruita dai sogni di un bambino, in un messaggio di umiltà e coraggio sulle onde della fantasia

Una storia breve, raccontata con la solida capacità di chi riesce a esprimere un innocente castello di carta con gli occhi di un bambino, immerso in quella solitudine costretta da un padre che non vuole rinunciare a offrire una dignità migliore al proprio figlio. Una storia raccontata nei disagi ordinari di chi vive ai margini di una società che vuole, sempre di più, sembrare antirazzista. Ma chi vive ai margini di una città moderna non conosce che la sola determinazione fatta di rassegnazione a un futuro che lascia poco spazio alle parole.

Una storia breve raccontata attraverso gli occhi di un bambino che usa le scatole di cartone procurate dal lavoro di un padre raider di una pizzeria, per costruirsi una barca fatta di sogni. Quelli grandi, usati per voler crescere al fianco di suo padre, per scoprire il mondo e non per vederselo distrutto da una pioggia fatta di cattiveria, quella vera e che deve ancora scoprire.

Roberta Palmieri ha saputo scrivere una piccola storia, sceneggiata con i propositi di chi conosce il mondo dei grandi, quello reale e costruito da altre persone che vogliono cambiare in meglio le prospettive di chi può ancora vivere una condizione di disagio sofferta, forse ancora troppo difficile da poter cambiare, ma ancora in tempo per poter essere migliorata. La regista Margherita Ferri ha avuto il merito di saper raccontare per immagini questo “mondo a parte”, con la propria esperienza di cineasta consolidata dalle recenti produzioni firmate Netflix negli episodi diretti per la serie ZERO (2021) e molti altri lavori registici suddivisi tra cortometraggi e documentari, in quello stesso Generazione d’azzardo girato nel 2013, forse ancora poco incisivo nello stile, ma nelle capacità confermate dalla stessa sceneggiatura scritta per The Nest, film diretto da Roberto De Feo con Francesca Cavallin, per la Colorado Film.

Il cortometraggio Capitan Didier ha il pregio di essere un progetto sublime nella sua fattura, dalla disincantata interpretazione dei suoi protagonisti, da Miguel Gobbo Diaz (già visto nella serie televisiva Nero a Metà, al fianco di Claudio Amendola e lo stesso Zero della regista Ferri) e il piccolo Salvo Adado, con le musiche scritte da Alicia Galli e un montaggio esperto di Mauro Rossi (Gli anni belli diretto da Lorendo d’Amico de Carvalho, 2022). Una storia breve, raccontata per chi vuole ancora credere. Senza cinismo. E basta.

Paolo Arfelli Vannucci