Quando di virtù è cinema virtuale
L'evoluzione in digitale nella sublime rappresentazione del cinema epico di culto
C'era una volta quella piccola scatola di luci e ombre, riflessi di giochi di specchi, intrattenitore di un pubblico entusiasta di un simile "mirabolante ed eccentrico" risultato; il cinema. Lo stesso pubblico che oggi, con il medesimo movente intrattenitore, giace sulle comode poltrone di multisala ipertecnologici, tra sistemi dolby sempre più "high fidelity" e leccornie consumate tra un sorriso e un bacio, oppure ovattato nelle comode mura domestiche, con home-theatre che hanno visto decadere i "Super 8" e i "VHS", precursori della nuova era tecnologica nella coppia "DVD-Blu Ray ". C'era una volta ciò che oggi è sempre di più il cinema dei sogni, dove i fili manovrati da quel cineasta mangiafuoco hanno sempre abilmente dispensato l'abile illusione di un trucco effimero nel medesimo risultato. La spettacolarità di un cinema che ha sempre voluto stupire, ammaliare, nei binomi tra regista e alter-ego già dai tempi di "de Mille e Charlton Heston", dove l'epopea storico-religiosa era ancora parte di una coscienza morale che sapeva ancora di buono, dove le acque del mar rosso hanno saputo incantare come quella memorabile corsa delle bighe in Ben Hur, diventata tributo nel contemporaneo Il gladiatore, con un Russell Crowe degno di stima per un simile azzardato raccostamento. Lame rotanti forse un tantino più inquietanti di una stucchevole disputa amorosa nel Grease dei fasti musical anni settanta, ma sicuramente sempre convincenti e degne di tanta amorevole dedizione. Poi è arrivata la svolta fantasy-fantascientifica firmata Ridley Scott, che con le dispute di Alien e Ripley ha saputo suggellare l'immortale saga devota al cinema di culto, fatto di cultura, elogio dell'arte sublimata da ogni piccolo dettaglio artistico-umorale, psicologico, sia nei dialoghi che nelle movenze caratteriali dei personaggi stessi. Risvolti che ha saputo riproporre nell'enorme tributo siglato Legend, favola eterna dai risvolti etereamente epici, di nenie tramandate nelle voci secolari di avi attempati dediti a soddisfare la fantasia dei pargoli incantati da tanta soave saggezza narrata. Stessa trionfale sorte è stata impartita dal titanico Peter Jackson, distillando sapientemente dedizione, devozione e stupore digitale nei capolavori della saga del Signore degli Anelli di Tolkien, per convergere nel remake più suggestivo che abbia potuto girare nel colossale King Kong, o meglio il suo King Kong, unico e originale, fedele in ogni dettaglio a ciò che la stop-motion ha saputo imprimere nella fantasia di un bambino che sarebbe diventato il regista che è oggi, lo Spielberg per gli adulti devoti a un cinema meno favolistico e surrogato di un cliché capace più di intimorire che di commuovere.
Lo stesso effimero terrore impresso nel Troy di Wolfgang Petersen, glorioso nella sua ricercata atavica lotta di divinità belle e dannate, di omeriche narrazioni trasposte in un cinema americano che sa condire di machismo d'esportazione ogni tentativo di ricongiungersi con una cultura gelosissima delle proprie sudate radici.
Accostabile e più cruenta è l'opera di Zack Snyder, quel 300 nato principalmente per rimanere in sospeso tra un prodotto commerciale da play-station e "per sempre fedele" al fumetto di culto da cui prende origine; un'orgia di graphic novel nate per soddisfare le ansie e i bisogni adolescenziali che devono maturare nel culto critico di chi riesce a consacrarlo. Gimenez aveva saputo raccontare la sua Città, in ciò che Matrix è l'essenza più devota al dogma istituzionale, dove le turbe erotiche e violente di Sin City sono solo eccessi necessari per mantenere viva la tradizione del fumetto di culto.
Lo stesso culto che Coppola ha saputo impartire nel suo Dracula, esempio lampante di come la sofisticata semplicità di un soggetto possa essere rappresentata nella sua integrale essenza di romanzo.
Elizabeth: the golden age, dell'indiano Shekhar Kapur, arriva sugli schermi come apice di questa sudata tradizione di cinema fatto di mestiere e qualità, dove l'enfasi dell'impatto visivo non deve distogliere lo spettatore da ciò che la tecnologia deve solo migliorare per qualità narrativa e non per avidità di consumo. Tradizione, storia e romanzo diventano quindi i soli ingredienti capaci di rimanere gli unici indispensabili per destare fascino e originalità creativa. Cate Blanchett regala la sua interpretazione alla scelta stessa del suo personaggio, reduce dai fasti in costume elfico, diventando l'emblema stesso di quella tradizione vittoriana che era già stata anticipata nell'Orlando di Sally Potter, con una androgina Tilda Swinton capace di destare angosce sentimentali senza tempo e confine. Oggi non rimane che aspettare la rivisitazione dell'opera migliore del tedesco Fritz Lang, quel Metropolis del 1926 che viene riproposto sempre in versione restaurata, sotto le mani di ogni cultore della settima arte che rimane estasiato da tanta abilità visiva degna solo di essere ammirata.
Tutto questo è cinema!
Paolo Arfelli Vannucci
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