domenica 11 settembre 2022

Apocalittici d'autore

APOCALITTICI D'AUTORE

L'evoluzione fantasy attraverso i registi più "profetici" del cinema: Lang, Scott e Kazuaki

Un viaggio onirico nel cinema fanta-drammatico di culto

Se facciamo testo basandoci sullo stesso movimento letterario nato negli anni che hanno preceduto il secondo conflitto bellico, a cui hanno aderito poeti come Fraser, Treece o Findly, dove il rifiuto dei canoni poetici tradizionali poteva essere l'unico nutrimento per animi straziati dagli stessi eventi che richiamavano bibliche visioni sull'epilogo dell'umanità, quello che il cinema ha saputo completare nel proprio contributo fatto di arte visiva e sonora ha indiscutibilmente definito, nei massimi espressivi, ciò che d'apocalittico continuerà a perseverare nell'eternità, claustrofobica, distruttiva, di speranza e rinascita, non solo metaforica o di pura finzione cinematografica. Quella rinascita che ha da sempre ispirato ogni cineasta responsabile di un prodotto che, per soggetto e valenza, rimane la testimonianza concreta di un livello qualitativo destinato ad etichettare non solo un genere cinematografico, ma di riuscire a migliorare quella ricerca continua di stile e buongusto che ha fatto grande il cinema fantastico. Lo stesso livello qualitativo che ha consacrato, per primo, il genio di Fritz Lang, nel suo indiscusso capolavoro di rara abilità visiva del 1926, Metropolis, capostipite di quella scuola espressionista di un cinema che ha saputo reinventare tradizione e innovazione come filtro di un'epoca ancora assopita da quei canoni conservatori, immutati per generazioni sino ai nostri giorni, e pur sempre garanti di quella qualità rigenerativa riversata su quelle tecniche cinematografiche che riescono a stupire nell'imbarazzante paradosso temporale, per immutata innovazione riflessa. Ispirato dalla stessa emozione legata allo squarcio d'orizzonte newyorchese suscitata al regista, Metropolis diventa un autentico crogiolo di riferimenti, non solo puramente biblici (vedi "La Torre di Babele" come apice di quel conflitto sociale riversato sulla rudimentale lotta di classe tra potere e schiavismo), ma testimonianza indiretta di un'epoca realmente toccata da disastri ambientali strettamente connessi al progresso vissuto del periodo. Elementi come il pericolo energetico, il disastro ambientale, un progresso tecnologico sempre meno primordiale di come sia stato egregiamente rappresentato, hanno saputo non solo dare merito all'autentico romanzo di Thea von Harbou, ma hanno definito quel legame di cinema drammatico caratterizzato dagli elementi narrativi espressi. Quel progresso tecnologico futurista nella stessa creazione di una donna androide, simbolo perfetto dell'avidità dell'uomo, dell'eccesso desiderio estremizzato sino all'autodistruzione, miscelando sofisticatamente il fine spirituale e il bene materiale. Lo stesso dualismo che ha innalzato il sentimento d'amore e possessione, nella diversità intrinseca allo stesso, nell'ossessione di Deckard-Harrison Ford nel Blade Runner di Ridley Scott. Mezzo secolo di innovazione cinematografica, per passare dal metodo Schufftan del film di Lang alle moderne riprese in computer grafica che hanno introdotto l'universo futurista dello stesso George Lucas nella sua trilogia ripresa in due parti, la più colossale della storia del cinema, in Guerre Stellari. La stessa città introdotta da quella panoramica aerea sulle ali delle note di Vangelis, nel caos urbano intriso di mercanti del sesso e paure legate all'eterna caccia tra uomo e donna, legge e trasgressione, vita e morte. Lo stesso dolore incarnato dal glaciale volto di Roy-Rutger Hauer, leader e padrone di quel mondo segreto capace di destare compassionevoli sentimenti di umanità e disprezzo verso la stessa commiserazione.

La fragilità in quella diversità sostenuta da Rachel-Sean Young, nel bisogno di riscoprire se stessa, per conoscere la vera origine della sua esistenza, combattuta dai ricordi e dalla paura di non essere viva, concreta e infine consapevole.

Quell'atto finale di esasperazione che ha consacrato l'ultimo capolavoro di Kiriya Kazuaki, Kyashan. Nato come originale serie televisiva d'animazione nipponica dei primi anni settanta, nella stessa gestazione dello studio Tatsunoko che ha dato i natali ad altre serie di analogo consumo (vedi Hurrikane Polimar), Casshern (il titolo originale della saga) riprende egregiamente i toni cupi e strazianti dei suoi due illustri predecessori sopracitati, miscelando, con devozione ad un pubblico più maturo e consapevole di un genere, angosce e conflitti etnici riversati nella visionaria e distruttiva ovazione bellica.

Il conflitto edipico padre-figlio, già rivalutato da Fritz Lang, la trasformazione uomo-androide, la ricerca estenuante di quell'ideale perseguitato sino all'estremo riscatto, diventano gli unici elementi capaci di consacrare un genere non solo cinematografico, ma di autentico valore letterario. Come conclude Roy, nel suo tragico epitaffio: "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser, e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”.   

Paolo Arfelli Vannucci

Nessun commento:

Posta un commento