
Ritornano le imprese narrate da
Benjamin Tabart e Joseph Jacobs, nel restyling diretto dal “papà” degli X-Men,
Bryan Singer.
“Ucci, ucci
sento odor di cristianucci”. Lo ha
esclamato il Bryan Singer che ha resuscitato il fumetto di Siegel & Shuster
nel mantello di Kal-El (Superman returns)
e il prequel della dinastia degli X-Men,
in attesa dell’imminente seguito del giovane gruppo capitanato da McAvoy. Se la
fortuna del regista è legata alle gesta di eroi di carta (e qui si parla di una
delle fiabe più popolari, tramandate dalla cultura inglese e importata dalla
voracità statunitense), allora ci troviamo al cospetto di una delle più belle e
meritate trasposizioni “computerartigianali” che farebbero invidia persino a
zio Walt (Disney), quando nel 1947 si cimentò voce e disegni nel quarto
lungometraggio d’animazione “di gruppo” (il nono di serie) distribuito dalla
RKO, deliziandoci con un Topolino, Pippo e Paperino alle prese con la
proverbiale scalata alle spalle del pacioso gigante (Bongo e i tre avventurieri), frutto miracoloso della crescita del
germoglio leguminoso più promettente che si possa sperare. Se l’ilarità da
sempre tramandata sin dalla prima pubblicazione The History of Jack and the Bean-Stalk (stampato da Benjamin
Tabart), è sempre stata la chiave di lettura che è la madre delle favole
folkloristiche di ogni tempo, Nicholas Hoult è praticamente perfetto per
immergersi nel mondo fantasy popolato da sortilegi e magie, quasi un
promettente e aspirante stregone in quel di Merlino (impossibile non fare
riferimento alla fortunata serie televisiva omonima, trasmessa dalla BBC con
Colin Morgan interprete, a cui lo scenografo Gavin Bocquet deve i propri
meriti), nei panni analoghi di un timorato Jack che si trova costretto a
difenedere le proprie terre dal Mondo dei Giganti, risvegliati, irritati e cocciuti
nel reclamare la legittima podestà del proprio regno. Che di Leggenda sia,
leggenda sia fatta... anche se questi “stralunati bamboccioni” di cattivo
sembrano aver ben poca fattezza, confidando nella propria proverbiale indole primitiva,
confrontandosi nell’umanità contrapposta dalla nobile casta ridimensionata
dalle vesti regali di Re Brahmwell (uno Ian McShane ormai abituato ad amorfiche
trasfigurazioni, da quando Rupert Sanders lo ha immolato a nano nel suo Biancaneve e il cacciatore), per essere
affiancato da Stanley Tucci (altro cardine d’eccezione, dopo il circense
showman televisivo di Hunger Games), solo per fare breccia nel cuore della
principessa Isabelle (Eleanor Tomlinson), senza tralasciare Ewan McGregor
(Elmont) e Raine McCormack nelle rappresentative recriminazioni da gigante. Gli
ingredienti ci sono proprio tutti, per non deludere tante aspettative, mentre
per ora possiamo solo remunerare l’ultima impresa cinematografica risalente a
dieci anni fa, diretta da Brian Henson, con un Matthew Modine in chiave
dickensiana, per ristabilire ordine nelle dispute genetiche controllate con
etica noncuranza. Che un fagiolo possa destare tanta attenzione, questo lo
staremo proprio a vedere...
Paolo Vannucci