PRISCILLA |
Una riuscita operazione commerciale, quella della regista figlia d’arte, conosciuta come Sofia Coppola. E parliamo, si, di una vera macchina propagandistica, debellata dalla stessa famiglia Presley, abituati a quelle proverbiali distanze su come ci si possa arricchire sulle spalle di un mito. Un mito frantumato dalle proprie ossessioni, debolezze, imperfezioni. Come siamo sempre stati abituati a “polverizzare” la vita dell’unico vero Re del Rock ‘n’ roll, sprezzanti di quelle verità che hanno frantumato la sua stessa vita, annullata dai farmaci e dai propri sbagli. Quelli che i fan non hanno mai voluto perdonare al proprio mito. Unica tra tutti proprio lei, l’artefice del suo stesso abisso, unico per entrambi. Un grande amore, vissuto nel nome della passione e dei tradimenti, raccontato nella biografia scritta da Priscilla assieme a Sandra Harmon, senza tralasciare nulla a chi si vuole nutrire delle ceneri di una storia consumata. E il cinema degli ultimi anni ci ha sempre insegnato come difficile sia raccontare i segreti di chi divide la propria vita con chi abusa dei privilegi del prossimo. Sofia Coppola ha avuto la delicatezza di non “sgretolare” l’identità di un amore condiviso, nato giovanissimo per entrambi. Lui ventiquattrenne e lei appena quattordicenne. Lui giovane star in ascesa, lei piccola studentessa immersa in quell’alcova famigliare fatta di patriarcale protezione e perbenismo cattolico americano. Lui imperfetto nella sua gabbia d’orata, lei vittima della sua stessa adorazione. Una Priscilla, interpretata dalla ventiseienne Cailee Spaeny, un po’ distante dalla vera persona, ma sempre autentica nella riuscita rappresentazione di una purezza dei sentimenti. Quelli così facili da provare per chi poteva godere di una attenzione così troppo grande da assecondare. Un Elvis, interpretato da Jacob Elordi, così simile al mito (non solo fisicamente), così sbagliato nelle sue paure e debolezze. Imperfetto, si, ma sempre unico. Sui giornali scandalistici, le riviste di musica, le locandine dei concerti, i manifesti dei suoi film. Sempre tanto e troppo… di tutto.
Sofia Coppola ha saputo tratteggiare al meglio una biografia essenziale (Elvis and Me), scarna degli abbagli musicali delle sue stesse canzoni (rifiutato il permesso di usufruire dei loro diritti) ma saturo di tutto quello che serve per confezionare la stessa rovina di un rapporto cresciuto “malato”. Il cinema della Coppola è cresciuto bene, partendo da quell’esordio nel nome di Il Giardino delle Vergini Suicide, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides per finire a L’inganno, corale reunion di attrici nel nome di un cinema che sa il fatto suo. Una celebrazione deviata, come tanti tentativi riusciti nella stessa maniera. Parliamo delle fragilità inespresse nella sua vera natura di una Diana Spencer consumata da quegli abusi che la famiglia reale ha sempre sostenuto. Per approdare nelle ridondanti scanalature di una Jackie Kennedy Onassis, così scomoda nelle vesti della sua stessa esistenza (come la stessa Natalie Portman poteva sembrare insolita nella sua interpretazione).
Un film ben costruito, sostenuto dalle scenografie dosate di Tamara Deverell, in quella Graceland barricata dai suoi stessi fan e sapientemente riproposta nella sua d’orata magnificenza. Soporifera e allentata dai ricordi di un amore che si chiude come quei cancelli che segnano la fine di una favola che, per tutti noi, continuerà a cantare sulle note delle sue canzoni.
Paolo Arfelli Vannucci