DICINEMA: SYLVESTER STALLONE |
Un
viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i
registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in
celluloide
Azione,
machismo e impegno: le tre qualità che hanno contraddistinto uno
degli attori più meritevoli, nelle qualità di Sylvester Stallone.
Il
riscatto sull’umiliazione. Uno dei temi principali da cui ha
attinto ogni sorta di autore che si è cimentato dietro la macchina
promozionale del cinema, generando ogni sorta di prodotto
commerciale, bazzicando
in ogni genere, dal comico al drammatico, senza trascurare
quell’impegno sociale che sembra sgorgare da quel campanilismo
nazionale che può facilmente vacillare. Escludendo chi del proprio
valore sportivo ne ha fatto la peculiarità d’attore, vedi i vari
Bruce Lee e il più attinente Jean Claude Van Damme, non sono molti i
nomi che hanno saputo valorizzare un cinema celebrativo all’altezza
dei meriti, ripescando volentieri un Chuck Norris dai meandri
televisivi contemporanei, nel riflesso della popolarità acquisita e
consolidata dal proprio talento, nel corso di una carriera costruita
ad arte. Sylvester Stallone, “Sly” per chi si vuole
confidenzialmente avvicinare al mito, dai natali controversi e
battezzati in quell’ istituto di carità dal nome provvidenziale
per chi vuole coniugare la pronosticata sorte, Hell’s
Kitchen (Cucina
dell’Inferno) nel quartiere di Manhattan, dal padre barbiere (Frank
Stallone, dal quale ha ereditato il nome il secondogenito, musicista
e anonima comparsa di rilievo), dalle origini italiane pugliesi (i
nonni di Gioia del Colle, in provincia di Bari) e dalla madre
astrologa, Jacqueline Labofish. Studente difficile (14 istituti
cambiati prima di arrivare al college), trova la strada scegliendo un
corso di Arte Drammatica e iniziando con vari produzioni
off-Broadway, in quell’iniziazione porno-soft Porno
proibito-Italian Stallion, che siglerà lo stesso pseudonimo adottato
nello script originale che gli è valso l’Oscar (regia, miglior
film e montaggio) per Rocky,
con il primo diretto da John G. Avildsen e i successivi 4 episodi
diretti da lui stesso (eccetto Rocky
V ripreso da
Avildsen), conclusosi con un “fiacco e appesantito” epilogo, una
obsoleta metafora in bilico tra la vita privata dell’attore (il
figlio Sage, usato nel quinto episodio, morto per arresto cardiaco
nel 2012) e l’ego del proprio personaggio, oggi
in sala con Creed,
dedicato
al figlio di Apollo.
Dal pugile di periferia in avanti, sono un susseguirsi di successi
commerciali più o meno centrati, sottolineando le tre produzioni che
possono avere il pregio di vivere di vita propria rispetto alla
stessa filmografia, in ordine F.I.S.T.
(di Norman Jewison, sul conflitto d’interessi ripiegato nelle lotte
sindacali), I Falchi
della Notte (di
Bruce Malmuth, revisionando il mito di Serpico
di Lumet, con l’originale Al Pacino nei meandri corrotti della
legge urbana) e il restyling anni ’80 de La
Grande Fuga,
approfittando di un soggetto analogo diretto nel ’61 da Z. Fabri,
Due tempi
all’Inferno, con
un cocktail di veri assi del football, da Pelè a Bobby Moore, per
Fuga per la
Vittoria, diretto
da John Huston. Altro grande colosso, nel “conflitto” di
botteghino accumulatosi con gli anni, è Rambo,
personaggio ispirato dall’omonimo romanzo di David Morrell, First
Blood (Primo
Sangue), trasposto per il cinema da Ted Kotcheff nell’82, il
precursore di una fortunata trilogia nelle possenti spalle di un
Sylvester Stallone “pompato” su misura, visto che il servizio di
leva lo ha completamente schivato proprio per la stessa guerra del
Vietnam, arrivato sino all’ultimo (per ora) capitolo da lui diretto
nel 2008, John
Rambo. Lodevole
alla regia, rimane la ripresa della fortunata scia lasciata da La
Febbre del sabato sera,
in quel Tony Manero caratterizzato da John Travolta, sfruttando la
dinamica del montaggio celebrato dal proprio Rocky per metabolizzare
in passi di danza e musica un sequel di riguardo, con Staying
Alive. Al limite
della “naivetè” affiora l’assolo di Cobra,
dal cui set scaturisce l’amore con la compagna Brigitte Nielsen,
per passare dalla pura commedia (Fermati,
o mamma spara) al
dramma d’azione meno accreditato (Cliffhanger),
toccato dalle grazie di un John Landis che lo ha “ammorbidito”
nel valzer di Oscar
– Un fidanzato per due figlie,
gradevole farsa nella falsariga del proibizionismo, con Vincent Spano
e Marisa Tomei tra i tanti. Incursione fantasy nel fumetto in
celluloide rimane Dredd
– La legge sono io,
al fianco di Diane Lane, per riprendere il genere poliziesco tastato
commercialmente con Tango
e Cash, nel più
drammatico Cop Land,
diretto da James Mangold. Assist da cammeo
rimangono i recenti episodi dei I
Mercenari, nel
primo dei due capitoli diretto dall’attore, per tracciare un
bilancio in positivo di una carriera che ha egregiamente incorniciato
gli status massimi dei cliché
espressi dal cinema americano, in quel nome che è diventato un vero
e proprio marchio di garanzia.
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