giovedì 7 gennaio 2016

DiCinema. la nuova Hollywood

DICINEMA: SYLVESTER STALLONE
 Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide
Azione, machismo e impegno: le tre qualità che hanno contraddistinto uno degli attori più meritevoli, nelle qualità di Sylvester Stallone.

Il riscatto sull’umiliazione. Uno dei temi principali da cui ha attinto ogni sorta di autore che si è cimentato dietro la macchina promozionale del cinema, generando ogni sorta di prodotto commerciale, bazzicando in ogni genere, dal comico al drammatico, senza trascurare quell’impegno sociale che sembra sgorgare da quel campanilismo nazionale che può facilmente vacillare. Escludendo chi del proprio valore sportivo ne ha fatto la peculiarità d’attore, vedi i vari Bruce Lee e il più attinente Jean Claude Van Damme, non sono molti i nomi che hanno saputo valorizzare un cinema celebrativo all’altezza dei meriti, ripescando volentieri un Chuck Norris dai meandri televisivi contemporanei, nel riflesso della popolarità acquisita e consolidata dal proprio talento, nel corso di una carriera costruita ad arte. Sylvester Stallone, “Sly” per chi si vuole confidenzialmente avvicinare al mito, dai natali controversi e battezzati in quell’ istituto di carità dal nome provvidenziale per chi vuole coniugare la pronosticata sorte, Hell’s Kitchen (Cucina dell’Inferno) nel quartiere di Manhattan, dal padre barbiere (Frank Stallone, dal quale ha ereditato il nome il secondogenito, musicista e anonima comparsa di rilievo), dalle origini italiane pugliesi (i nonni di Gioia del Colle, in provincia di Bari) e dalla madre astrologa, Jacqueline Labofish. Studente difficile (14 istituti cambiati prima di arrivare al college), trova la strada scegliendo un corso di Arte Drammatica e iniziando con vari produzioni off-Broadway, in quell’iniziazione porno-soft Porno proibito-Italian Stallion, che siglerà lo stesso pseudonimo adottato nello script originale che gli è valso l’Oscar (regia, miglior film e montaggio) per Rocky, con il primo diretto da John G. Avildsen e i successivi 4 episodi diretti da lui stesso (eccetto Rocky V ripreso da Avildsen), conclusosi con un “fiacco e appesantito” epilogo, una obsoleta metafora in bilico tra la vita privata dell’attore (il figlio Sage, usato nel quinto episodio, morto per arresto cardiaco nel 2012) e l’ego del proprio personaggio, oggi in sala con Creed, dedicato al figlio di Apollo. Dal pugile di periferia in avanti, sono un susseguirsi di successi commerciali più o meno centrati, sottolineando le tre produzioni che possono avere il pregio di vivere di vita propria rispetto alla stessa filmografia, in ordine F.I.S.T. (di Norman Jewison, sul conflitto d’interessi ripiegato nelle lotte sindacali), I Falchi della Notte (di Bruce Malmuth, revisionando il mito di Serpico di Lumet, con l’originale Al Pacino nei meandri corrotti della legge urbana) e il restyling anni ’80 de La Grande Fuga, approfittando di un soggetto analogo diretto nel ’61 da Z. Fabri, Due tempi all’Inferno, con un cocktail di veri assi del football, da Pelè a Bobby Moore, per Fuga per la Vittoria, diretto da John Huston. Altro grande colosso, nel “conflitto” di botteghino accumulatosi con gli anni, è Rambo, personaggio ispirato dall’omonimo romanzo di David Morrell, First Blood (Primo Sangue), trasposto per il cinema da Ted Kotcheff nell’82, il precursore di una fortunata trilogia nelle possenti spalle di un Sylvester Stallone “pompato” su misura, visto che il servizio di leva lo ha completamente schivato proprio per la stessa guerra del Vietnam, arrivato sino all’ultimo (per ora) capitolo da lui diretto nel 2008, John Rambo. Lodevole alla regia, rimane la ripresa della fortunata scia lasciata da La Febbre del sabato sera, in quel Tony Manero caratterizzato da John Travolta, sfruttando la dinamica del montaggio celebrato dal proprio Rocky per metabolizzare in passi di danza e musica un sequel di riguardo, con Staying Alive. Al limite della “naivetè” affiora l’assolo di Cobra, dal cui set scaturisce l’amore con la compagna Brigitte Nielsen, per passare dalla pura commedia (Fermati, o mamma spara) al dramma d’azione meno accreditato (Cliffhanger), toccato dalle grazie di un John Landis che lo ha “ammorbidito” nel valzer di Oscar – Un fidanzato per due figlie, gradevole farsa nella falsariga del proibizionismo, con Vincent Spano e Marisa Tomei tra i tanti. Incursione fantasy nel fumetto in celluloide rimane Dredd – La legge sono io, al fianco di Diane Lane, per riprendere il genere poliziesco tastato commercialmente con Tango e Cash, nel più drammatico Cop Land, diretto da James Mangold. Assist da cammeo rimangono i recenti episodi dei I Mercenari, nel primo dei due capitoli diretto dall’attore, per tracciare un bilancio in positivo di una carriera che ha egregiamente incorniciato gli status massimi dei cliché espressi dal cinema americano, in quel nome che è diventato un vero e proprio marchio di garanzia.

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