Un viaggio
nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di
miti in celluloide
Quando la rude virilità si sposa con il sentimentalismo, il
volto volitivo di uno dei machi della nuova mecca Hollywoodiana, nel talento di
Bruce Willis.
Duri a
morire... è proprio il caso di dirlo, quando il cinema americano è sempre stato avido di protagonisti in grado di
sostenere un non facile fardello di credibilità, suddivisa nel clichè assoldato
dai ruoli e la stessa tempra dell’attore. Chi si è cimentato in una simile
impresa, dai celebrati Robert Mitchum, maschera quasi dandy di un machismo ben
arbitrato, passando da I forzati della
gloria (The Story of G. I. Joe),
il caposaldo di un cinema documentaristico nella propria assoluta devozione, al
compendio devoluto nel Sangue sulla Luna
(Vento di Terre Selvagge), dove la metamorfosi umana del potagonista segue
una redenzione quasi prosaica del duro da intenditori, possiamo resettare
l’antagonismo caratterizzato da un Yul Brynner, che facilmente poteva passare
da ruoli di comprimaria cattiveria al classico sentimentale, vedi i più
rappresentativi Agli ordini del Fuhrer e al servizio di Sua Maestà, per deliziare i
palpiti femminili con il tradizionalismo espresso dal sempreverde Anastasia. Bruce Willis (Walter
all’anagrafe, classe ’55) è senza dubbio il più alto esponente di un cinema
adrenalinico con ampi crediti da kolossal commerciali. Di controversi natali (è nato in una base
militare tedesca, da padre meccanico e madre casalinga), dopo un college d’Arte
Drammatica interrotto per seguire la propria indole artistica, la solita
gavetta di mestieri umili (dal barista al camionista) lo porta ad affrontare le
prime esperienze professionali, passando dalla profetica sostituzione in un
musical a scapito di Ed Harris, a cui si susseguono provvidenziali
partecipazioni e occasioni mancate (una parte “glissata”al Cercasi Susan disperatamente di
Madonna), per approdare, da vero protagonista, alla serie televisiva Moonlighting, fortunata saga
giallo-romantica, trasmessa dal 1985-89 al fianco di Cybill Shepherd, mentre la
commedia di Blake Edwards lo raccoglie ancora fresco di programmazione per le
analoghe performance di Appuntamento al buio (1987),
rocambolesca soap rosa al fianco di Kim Basinger, e Intrigo a Hollywood. La vera performance che marchierà la tempra di
Willis arriva con la regia di John McTiernan, nel Trappola di Cristallo (Die Hard), apparentemente un innocuo
rifacimento dell’originale Inferno di
Cristallo, firmato da Guillermin, per diventare una inedita trilogia fine a
stessa, arrivata sino al capitolo odierno con l’epitaffio “Un buon giorno per
morire”, siglato John Moore. Robert Zemeckis lo riabilita alla commedia con
tanto di effetti speciali ereditati dalle fatiche spielberghiane, nel suo La Morte ti fa bella, mentre Quentin
Tarantino non può che approfittare del proprio taglio di attore, per non
assecondarlo in Pulp Fiction. Uno dei
primi registi ad immolarlo in una inedita dimensione data al cinema di fine
secolo (siamo nel 1997) è Luc Besson, con una piccola gemma di fantasy che
mette in ombra il capolavoro di Scott e Lang (rispettivamente Blade Runner e Metropolis), ne Il Quinto
elemento. Una moderna e urbana visione del futuro, con una Milla Jovovich,
barocca e sensuale icona femminile (vestita da Jean Paul Gaultier) all’altezza
di un cinema francese che ha saputo ammaliare Hollywood. Analogo è il più
introspettivo dramma ritratto da Terry Gilliam, L’Esercito delle 12 Scimmie, con un Brad Pitt all’altezza dei
ranghi. Il ciclone Armageddon,
pilotato dal Re Mida Michael Bay, lo consacra
definitivamente attore di culto, in una miscela di citazioni, tessute su una
sceneggiatura che vuole uscire dai margini del disaster movie, per desistere
dall’essere semplice film da blockbuster. Considerando la parentesi privata di
Planet Hollywood (non di meno il matrimonio con l’attrice Demi Moore), la
catena di ristoranti per celebrity voluta insieme a Stallone e Schwarzenegger,
con i quali gira la serie di film I
Mercenari (tra camei e protagonismi
di convenienza), la punta di diamante del fumetto d’autore, Frank Miller
(insieme ai registi Robert Rodriguez e Quentin Tarantino), lo immortala nel
bianco e nero “rossosangue” di Sin City,
cult della graphic novel moderna. Tema che incoraggia e motiva il regista Jon
M. Chu a definire un ponte degno dell’attore con il culto dei comics G.I. Joe,
nell’omonimo “La Vendetta”, ristabilendo quel vincolo naturale che, già nel film
di William A. Wellman (girato in contemporanea con il secondo conflitto
bellico), ha sempre stabilito il legame di appartenenza ad una categoria di
uomini che cadono, si rialzano e sopravviveranno per sempre.
Paolo Vannucci