Un
viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i
registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in
celluloide
Il
Divo camaleontico di tutti i tempi. Vera maschera d’attore, per uno
dei volti che hanno celebrato il cinema mondiale, nel carisma di
Robert De Niro.
DiCINEMA: ROBERT De NIRO |
Ogni
artista, è risaputo, mette se stesso in ogni sua opera, che sia
pittura, musica, letteratura o, come in questo caso, recitazione. Se
poi l’artista deve il proprio talento a quella caparbietà
caratterizzata dalla propria etnia, portata con quella fierezza che
volentieri rinvigorisce
di autenticità un cliché
annaffiato dalla stessa veridicità anacronistica che determina in
molti casi la sceneggiatura... bé,
ancora meglio. In questo caso, gli auspici non potevano essere
migliori, considerando i natali devoluti da una famiglia baciata dal
sacro fuoco dell’arte, nel padre Robert pittore e la madre Virginia
poetessa e pittrice. Robert De Niro (Di Niro, il cognome originale
dei nonni paterni, emigrati nel 1890 da Ferrazzano), con gli studi
superiori abbracciati dalla Little Red School House dove si laurea,
per percorrere quella strada di attore che lo vede sorretto da quei
pigmalioni che credono in quella aspra caratterizzazione richiesta
dai primi successi, dal Taxi
Driver di Martin
Scorsese (vero alter
ego dell’attore) al
giovane Corleone (primo Oscar come attore non protagonista), nel
marchio DOP della saga diretta da un altro italo
americano d'élite,
Francis Ford Coppola nel suo Il
Padrino. Ma il
primo a credere in De Niro è Brian De Palma, che lo dirige prima in
Ciao America!,
influenzando la propria prova registica in Bronx,
vent’anni dopo, ricucendo quella Little Italy celebrativa da ogni
convenevole di parte, per proseguire con lo stesso Elia Kazan, padre
dell’Actors Studio, che lo dirige in Gli
Ultimi fuochi,
apripista di un genere proseguito l’anno successivo dallo stesso
Scorsese con l’analogo New
York New York.
Bernardo Bertolucci lo vuole insieme a Gèrard Depardieu, per
quell’ampio ritratto storico di classe, battezzato Novecento,
stessa operazione fatta da Sergio Leone per il suo pretenzioso C’era
una volta in America
(sulla falsariga del miglior Coppola), per arrivare alla celebrazione
del proprio culto in due ampi successi, nel Il
Cacciatore di
Michael Cimino (primo ruolo importante per Meryl Streep, al fianco di
Savage e Walken) e lo splendido Toro
Scatenato di
Scorsese, biopic del pugile Jack La Motta (il toro del Bronx),
magistralmente fotografato da Michael Chapman, che gli vale l’Oscar
per la miglior interpretazione. Di lodevole impegno spiccano
Mission
di Roland Joffè (al fianco di Jeremy Irons) e la prova in salsa
black comedy di Alan Parker, Angel
Heart, nei panni di
Lucifero nel recriminare la propria anima ad un incauto Mickey Rourke
in salsa voo-doo. La carriera di De Niro è un susseguirsi di ruoli
di primaria importanza, mantenendo sempre alto il margine
dissacratorio della commedia facile, passando dai restyling d’autore
per Non siamo angeli
(Sean Penn e Demy Moore, nei ruoli che furono di Bogart e Ustinov) e
Cape Fear (insieme
a Nick Nolte), per lievitare la facile risata nei recenti Ti
presento i mei (in
coppia con Ben Stiller), Un
Boss sotto stress e
la recente parentesi italiana diretta da Veronesi, in Manuale
d’amore 3, con
una Monica Bellucci in burrose forme mediterranee. Tutto a contornare
un mostro sacro di attore che ha saputo caratterizzare i propri
personaggi, sino al punto di autenticarli con le proprie
caratteristiche, vedi la trasformazione avvenuta per mano di Kenneth
Brangah, nell’omonimo Frankeinstein
di Mary Shelley. Di
non meno importanza rimangono i confronti diretti con i ruoli che lo
hanno consacrato, vedi Il
grande match,
diretto da Peter Segal, nel rapporto con un rivale pugilistico di
tutto rispetto in Sylvester Stallone, per passare a
Lo stagista inaspettato
(di Nancy Meyers) e lo stesso Nonno
scatenato di Dan
Mazer.
Paolo Vannucci