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DiCINEMA: RICHARD GERE |
Un
viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i
registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in
celluloide
Bello
e impossibile, per sempre gigolò:
il carisma del divo più efferato nel talento di Richard Gere.
E’
possibile che un film, nel suo essere fondamentalmente fenomeno di
costume, possa imprimere a pelle la vita di un attore? Non sarebbe la
prima volta e la lista dei fortunati che hanno arricchito le casse e
le tasche della mecca hollywoodiana può sembrare illimitata e
(scoordinatamente)
ripetitiva. Questo non ha di certo demotivato le aspirazioni di uno
dei sex symbol più celebrati della storia del cinema di tutti i
tempi, in quel nome che ha siglato i successi di botteghino più
effimeri degli
ultimi trent’anni, passando dal mito battezzato nell’American
gigolò
di Paul Schrader al successo celebrato nel culto di Pretty
Woman del
pigmalione Garry Marshall. Richard Tiffany Gere (classe ’49) nato a
Philadelphia dal padre Homer, assicuratore, e la madre Doris Anna,
casalinga, debuttando nel musical teatrale Grease,
dimostrando quelle qualità musicali riconfermate nei recenti
successi di Chicago
(ottimo cocktail di star a viva voce), nell’analogo Cotton
Club del maestro
Coppola e il drammatico “di fiele” Mr.
Jones, abilmente
diretto da Mike Figgis, con Lena Olin al seguito. Passando dalla
ricostruzione documentaristica elaborata da John Schlesinger, Yankees
(catenaccio in stile politically correct) alla devozione romanzata
del dogma, nella trasposizione tratta dal libro scritto da Graham
Greene, Il Console
onorario (Beyond
the limit, in
originale), l’ennesima consacrazione di Gere arriva con il successo
firmato Taylor Hackford, Ufficiale
e gentiluomo, al
fianco di Debra Winger e Louis Gossett jr., vincitore dell’Oscar
analogamente
alla canzone originale (Up
where we belong).
Kim Basinger lo affianca nei thriller Nessuna
pietà e il
restyling del Vertigo
hitchcockiano
Analisi finale
(ottima regia di Phil Joanou), con Eric Roberts a modernizzare un
triangolo più sulle righe. Jon Amiel lo dirige nel remake del
francese Il ritorno
di Martin Guerre,
Sommersby,
con Jodie Foster e Bill Pullman a cucire una trama allettata dalla
musica effimera di Danny Elfman, per sostenere un godibile
assemblaggio di personaggi e ambienti. Seguono il pretenzioso omaggio
epico dedicato alla tradizione anglosassone del Il
Primo Cavaliere,
con Sean Connery e Julia Ormond ad affiancarlo nel ruolo di
Lancillotto, e l’analogo omaggio alla tradizione americana della
commedia drammatica sentimentale, nel Autumn
in New York,
diretto da Joan Chen, con Winona Ryder nel rituale ruolo
dell’infelice amata destinata a morire. Adrian Lyne lo ritrae nella
sua abilità di ristrutturare la dinamicità del thriller a favore
del linguaggio moderno, nel riuscito
Unfaithful –L’amore infedele,
con Diane Lane e Oliver Martinez a condensare l’ennesimo triangolo
d’autore. La commedia disimpegnata firmata da Lasse Hallstrom,
Hachiko-Il tuo
miglior amico, lo
riporta ai fasti meno pretenziosi di Se
scappi ti sposo
(Garry Marshall, con Julia Roberts nel dissacratorio sequel del più
meritevole Pretty
Woman) e Il
Dottor T e le donne,
firmato da Robert Altman. Rimangono i proseliti del genere nel
tiepido Shall we
dance? Al fianco di
Jennifer Lopez nei rimandi dell’originale interpretato dalla coppia
Fred Astaire e Ginger Rogers, per scuotere di cinematografia
contemporanea nei riusciti The
Double e La
Frode, quest’ultimo
sorretto da una fotografia celebrativa che riesce a incorniciare i
ruoli abilmente sostenuti da Susan Sarandon e Laetitia Casta. Una
carriera di tutto rispetto per un attore che ha sempre rielaborato la
propria recitazione a favore di un cinema che ha meritatamente
sostenuto l’attore, dietro il sex symbol.
Paolo Vannucci