lunedì 6 febbraio 2012

STRAORDINARIO SCORSESE con HUGO CABRET


Un ritorno alla regia del “maestro” Scorsese, ridisegnando il romanzo di Brian Selznick, nel tributo più spettacolare all’inventore del cinema George Méliès

Effetti speciali e culto romanzato, per il biopic più celebrativo del regista, tra magia, sogni e storia del cinema.

Nel 1861, nasceva a Parigi un uomo che avrebbe segnato la storia di quell’invenzione “brevettata” dai fratelli Lumière, per trasformare il neonato cinema in quel prodigio di illusione e realtà, conditi con sapiente maestria “di parte”. Il suo nome era George Mèliés, illusionista di mestiere e pioniere di quelle tecniche cinematografiche che hanno segnato l’immaginario di ogni cineasta che si è cimentato dietro la macchina da presa, sino ai giorni nostri. Dal memorabile Viaggio nella Luna (Le Voyage dans la Lune) del 1902, si sono susseguiti innumerevoli capolavori di montaggio (Viaggio attraverso l’impossibile e lo stesso antecedente L'homme à la tête en cahoutchouc) che hanno devoluto l’illusione effimera di quegli effetti speciali all’avanguardia (fotogrammi colorati minuziosamente a mano e dissolvenze), che hanno portato alla bancarotta la stessa Star Film di Mèliér. Oggi, quel lascito di 1500 pellicole lo ha “meticolosamente” rieditato un altro grande del Cinema, rappresentante della “Nuova Hollywood”, adattando il romanzo scritto nel 2007 da Brian Selznick (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret) per farne un autentico capolavoro di cinema degno di tanta veemenza di stile. Il regista non poteva che essere Martin Scorsese, Classe ’42, dalle salde radici italiane devolute nel suo film-documentario Italoamericani, omaggio ai genitori e a tutti gli immigranti che hanno caratterizzato la Little Italy newyorchese. Cresciuto sotto una rigida educazione cattolica e segnato da un’asma che lo ha portato a concentrare ogni sua attitudine all’amore per il cinema (quei primi storyboard disegnati, sostituendo la cinepresa con la meticolosa riproduzione di scenari e personaggi), Hugo Cabret è il più imponente viaggio nel fantastico che Scorsese abbia potuto realizzare, riflettendo la propria adolescenza nella caratterizzazione di quei personaggi narrati da Selznick, nell’omonima storia scritta in due parti, impreziosita da centocinquantotto disegni e una pragmatica evocazione “Collodiana” allacciata allo stesso Georges Mèliés, nell’automa ritrovato dal padre orologiaio (un rinato Jude Law passato dal Lucignolo di A.I. a neo-Geppetto di Scorsese), portatore di un segreto rinchiuso nello stesso patrigno della ragazza, Isabelle (Chloè Moretz), amica del giovane Hugo (Asa Butterfield), orfano che vive di espedienti nella capitale parigina degli anni trenta. La rincorsa contro il tempo nel riunire l’automa al suo omonimo proprietario (Ben Kingsley, nella straordinaria somiglianza con l’autentico Mèliés), diventano un nostalgico monito a riappropriarsi di quel mestiere artigianale che non può essere soppiantato dalle prodezze delle nuove ere tecnologiche (benvenga il 3D!), quando ogni successione è sempre il risultato dell’evoluzione precedente, come la stessa alchimia riposta tra i due “riconosciuti” padri fondatori del cinema, i fratelli Lumière e Mèlière, nella stessa evocazione citata da Jean-Luc Godard, definendo i primi, portatori dello “Straordinario nell’Ordinario” e il secondo, dell’ “Ordinario nello Straordinario”. Rimane, in assoluto, un tributo al cinema fantastico in ogni tempo, dall’elaborazioni al computer del pionieristico Tron di Lisberger allacciato allo stesso Viaggio nella Luna, in quella panoramica di colore e luci sulla Torre Eiffel, epicentro di ogni animo artistico degno solo di essere ammirato. Da ogni critica di giudizio. Per sempre.

Paolo Vannucci

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